“disgraziatamente un proiettile colpì proprio il Partenone”*

La premessa inevitabile che mi ha indotto alla lettura di Atene 1687 è stata la tesi di Antonella Sacconi [“L’avventura archeologica di Francesco Morosini ad Atene (1687-1688)”, Bretschneider editore, Roma 1991], citata tra le fonti principali di Alessandro Marzo Magno.

Lo ammetto … sono un’archeologa! e l’idea che in un libro sulla guerra veneziana contro i Turchi si lasciasse ampio spazio alle notizie storiche relative al Partenone e alla sua miseranda fine, mi ha attratto irresistibilmente.

Anche la quarta di copertina, con quella frase stampata nero su bianco, solitaria ed incisiva come la migliore delle epigrafi “L’attentato contro un patrimonio dell’umanità”, mi diceva che Atene 1687 era proprio il libro giusto: un racconto storico che collocava il capolavoro di Ictino e Fidia in una prospettiva curiosa. Il capolavoro dell’arte greca guardato attraverso il cannocchiale del condottiero veneziano che ne aveva determinato al contempo la fine terrena e l’ingresso nell’empireo.

Cominciando a leggere il testo, poi, mi sono fatta un esame di coscienza rispetto alla mia cronica tendenza alla digressione … e ho avuto difficoltà a capire quale fosse, se c’era, il fulcro della narrazione: effettivamente il Partenone, bruciato, come faceva supporre anche il quadro scelto in copertina, oppure Morosini e la sua personale leggenda, oppure ancora l’entusiasmo dell’Autore per la ricerca archivistica?

Perché ciò che colpisce in Atene 1687 è la grande messe di informazioni, da quelle di carattere antiquario, a quelle storiche. I tanti salti nel tempo e nello spazio (ma sono gli scarti temporali a creare maggiori difficoltà), che sembrano, a volte, i veri motivi che hanno spinto l’Autore ad affrontare il testo.

Una voglia incontenibile di creare l’aggancio, di étonner, si direbbe, con annotazioni che creano disordine perché non permettono di seguire un filo continuo, ma fanno inciampare in piccoli, graziosi, fiocchi.

L’inserto a p. 114

(…) con gran soddisfazione degli stampatori che si vedono conseguentemente ingrossare la scarsella. Le notizie (dette novelle o nuove, da cui l’inglese news) quasi non fanno in tempo a giungere a Venezia (…)

è uno degli esempi più innocui, ma a p.44

(…) dove sono alla fonda 80 galere ottomane, 5 vascelli algerini e 5 maone da carico, cannoneggia i nemici, manda un contingente a terra che riesce a smontare una batteria costiera, prima che tutti tornino al largo incolumi (un’azione che ricorda da vicino quella leggendaria di Gunther Prien, comandante dell’U 47 tedesco che il 14 ottobre 1939 violò la più importante base navale britannica, Scapa Flow, silurando e affondando la corazzata Royal Oak). Ma non basta: nella medesima campagna Morosini forza il porto (…)

si crea, complice una punteggiatura piuttosto “scatenata”, la necessità di lunghe pause e riletture.

E il Partenone? Il Partenone c’è, un po’ meno sembra essere presente l’effettivo omaggio allo studio di Antonella Sacconi.

Infatti il capitolo dedicato al glorioso monumento pecca, secondo me, di qualche ingenuità. Per giungere velocemente al racconto principale, non si illustra a sufficienza il concetto di Acropoli di Atene e Pausania viene quasi bacchettato per non aver riconosciuto, lui per primo, l’importanza del monumento, limitandosi a poche righe (sic!).

Non viene affrontata l’importanza del complesso di santuari ospitati sulla rocca, ed è un poco fraintesa la capacità di catalizzatore della vita cittadina esercitata da quello che, fino a prova contraria, era il punto di arrivo della processione ateniese delle Panatenee.

Altrettanto vaghi rimangono alcuni riferimenti ad altri monumenti di Atene.

Primo fra tutti il c.d. Theseion.

Citato a più riprese (soprattutto p. 134), per un attimo mi ha fatto illudere di una mia enorme lacuna colmata finalmente da studi aggiornati… e invece ho l’impressione che l’Autore faccia riferimento all’Hephaisteion, il tempio che già Thompson nel 1949 (The pedimental sculpture of the Hephaisteion, Hesperia XVIII, pp. 230-268) faceva uscire dall’equivoco durato secoli: la decorazione architettonica con metope che illustravano le gesta di Teseo e di Eracle, infatti, aveva fatto pensare, già in età bizantina, che quello fosse il monumento eretto sulla tomba di Teseo ad Atene. Così nella letteratura archeologica il monumento è entrato (e vi è rimasto fino all’800 inoltrato) come Theseion e ha dato il nome anche al quartiere moderno (il Thission), anche se Pausania descrive un tempio con le statue di culto di Atena e di Efesto, due aspetti dell’artigianato ateniese, proprio sulla collina sovrastante l’agorà del Ceramico, ricca delle principali botteghe di vasai e pittori. Dunque non Theseion, anch’esso descritto da Pausania, ma non ancora localizzato dagli archeologi e anzi al centro di numerose teorie.

Atene 1687 è un libro che raccoglie numerose notizie, in questo senso è davvero prezioso: uno scrigno dove si può trovare dalla corona d’oro al rubino sfuso, alla moneta rara, alla patacca (forse). Il senso di confusione è superato dal luccichio delle gemme, che sono tante e probabilmente possono essere ricomposte in nuovi gioielli. Ad esempio, fuor di metafora, la raccolta di dichiarazioni all’indomani del bombardamento del Partenone, mi ha suscitato una riflessione.

L’Autore pone l’accento sul tentativo, spesso malcelato, di ridimensionare agli occhi dell’opinione pubblica il “delitto di Morosini”. Io mi chiedo quale fosse al reale percezione del Partenone all’epoca, se è vero che, dopo 3 mesi dal fatale colpo di mortaio, Morosini medita di minare tutta l’Acropoli (pp. 138-139).

Questo aspetto è forse ancora da approfondire, dato che un conto è riportare i commenti degli organi di stampa contemporanei, un altro è attraversare i secoli seguendo l’immagine che di Morosini veniva delineata di volta in volta sulla stampa europea. Questa sorta di propaganda pro domo “varia” risente inevitabilmente degli aggiornamenti nell’approccio allo studio dell’arte classica. Senza contare le ovvie implicazioni politiche che ogni periodo storico si porta dentro.

Dunque: Morosini è stato santo e diavolo alternativamente, ma il Partenone del 1687 che cosa era? A questa domanda temo che il libro non riesca davvero a rispondere.

Forse non è quello il punto, probabilmente la vita dello spregiudicato veneziano

di statura un poco superiore all’ordinario, di carnagione bianchissima e florida, ben formato, agile ma quadrato e asciutto; occhi azzurri e penetranti, fronte spaziosa, naso sottile; capelli biondo-rossicci leggermente brizzolati, radi, ma ricciuti; barba e baffi del medesimo colore; ricercato nel vestire, egli ispira a vederlo soggezione e rispetto. (p.54)

è un pezzo di vetro colorato e spesso che deforma e filtra il bianco latte del marmo pentelico. Questo aspetto è stato chiaramente colto dai curatori del nuovo Museo dell’Acropoli, i quali, nel video proiettato a ciclo continuo in due lingue, hanno scelto di sottolineare la tragedia del 1687 con una deflagrazione resa nei minimi particolari, effetto slow motion e un boato che scuote gli animi dei numerosi turisti…

Atene 1687 è un libro ricco di spunti, una collazione di suggestioni difficili da dimenticare. Un grande tazebao di brani manoscritti, ognuno corredato da bibliografia precisa, ognuno carico del fascino di biblioteche e archivi, consultati con entusiasmo dall’Autore.

Come recita il sottotitolo, Atene 1687 è il racconto mirabolante di Venezia, i turchi e la distruzione del Partenone, una centrifuga di suoni, odori, colori, soprattutto quelli del pistoiese Ignazio Fabroni, la cui opera Album di ricordi di viaggi e di navigazione sopra galere toscane dall’anno 1664 all’anno 1687 (conservata nella Biblioteca Nazionale di Firenze) è definita opportunamente da Alessandro Marzo Magno un esempio di protoreportage giornalistico, e di cui inserisce alcune tavole a colori tra le pagine del libro.

Un’esperienza intensa, che crea nel lettore ancora più voglia di perdersi nei meandri della storia.

*Da Mario Nani Mocenigo, Storia della marina veneziana, da Lepanto alla caduta della Repubblica, Filippi, Venezia 1985 (rist. anastatica 1935) p. 265.

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