Hypnos

Hypnos, alato, accucciato sulla testa di Arianna, che dorme ignara.

Che gli dèi misericordiosi, se esistono, ci proteggano nelle ore in cui né il potere della volontà, né le droghe inventate dagli uomini possono tenerci lontani dall’abisso del sonno. La morte è compassionevole perché da essa non c’è ritorno, ma chi emerge, pallido e carico di ricordi, dai recessi della notte, non avrà più pace.
(…)
Che sciocco, che folle divino è stato il mio amico, colui che mi ha preceduto e alla fine ha conosciuto terrori che forse saranno i miei.
Ricordo che ci incontrammo in una stazione ferroviaria, dove egli era al centro di una folla volgare e curiosa. Era svenuto e il piccolo corpo vestito di nero stava rattrappito sul marciapiede, come in preda alla paralisi. Penso che avesse una quarantina d’anni, perché la faccia pallida e incavata, ovale e veramente bella, era segnata da profonde rughe; nei capelli ondulati e nella piccola barba che dovevano essere stati neri come penne di corvo c’erano tracce d’argento. La fronte, di un’altezza e un’ampiezza divine, era bianca come il marmo pentelico.
Mi dissi, con l’ardore dello scultore, che quell’individuo era la statua di un fauno dell’antica Grecia disseppellita fra le rovine di un tempio e portata alla vita nella nostra età opprimente solo per sentire il freddo e la pressione dei millenni. E quando aprì gli enormi occhi incavati, luminosissimi, capii che sarebbe diventato il mio unico amico, il solo amico di chi non ne aveva mai posseduto uno.
Quegli occhi dovevano avere contemplato la grandezza e il terrore di regni al di là della coscienza e della realtà normali: gli stessi regni che avevo amato nell’infanzia ma non ero riuscito a ritrovare.
Così, mentre allontanavo la folla, gli dissi che doveva venire a casa mia, essere il mio maestro e la mia guida sulla via dei misteri insondabili. Lui annuì senza dire una parola, ma in seguito scoprii che aveva una voce squisitamente musicale: la musica di viole profonde e sfere cristalline.
Parlavamo spesso, sia di giorno che di notte, mentre scolpivo busti e teste d’avorio in miniatura per immortalare le diverse espressioni del mio amico.

E’ impossibile riassumere i nostri studi, perché avevano tenuissimi legami con il mondo come lo concepiscono i vivi: ci occupavamo di un universo più vasto e spaventoso, un universo di sostanza impalpabile ed elusiva che tuttavia ha radici più profonde del tempo, dello spazio e della materia, e di ci sospettiamo l’esistenza solo in certi momenti del sonno; facciamo allora sogni molto rari, sogni oltre i sogni che non capitano mai agli uomini comuni e solo una o due volte nella vita dei più fantasiosi.
(…)
Fra le molte sofferenze di questi giorni la più dolorosa è l’obbligo al silenzio. Ciò che ho visto e imparato nelle ore di empia ricerca non può essere detto a parole, perché al nostro linguaggio mancano termini e concetti.
Dico questo per chiarire che fin dall’inizio le nostre scoperte si basarono su sensazioni (…) che giocavano su aspetti paradossali del tempo e dello spazio e al fondo non possedevano un’esistenza autonoma e definita.
(…) In quei voli neri neri e senza corpo eravamo a volte soli e a volte insieme. Quando eravamo insieme il mio amico era sempre parecchio più avanti di me: ne intuivo la presenza, nonostante la mancanza di forme, grazie a una specie di memoria fotografica che mi permetteva di vedere la sua faccia soffusa di una strana luce d’oro e spaventosa nella sua fantastica bellezza; le guance parevano incredibilmente giovani, gli occhi bruciavano, la fronte olimpia era incorniciata dalla barba e dai capelli che sembravano ombre.
Del passare del tempo non tenevamo conto (…) i discorsi che facevamo erano empi, orribilmente ambiziosi: nessuno, dio o demone, avrebbe potuto aspirare alle scoperte e alle conquiste che progettavamo sussurrando.
(…) confesserò che il mio amico, una volta, scrisse su un pezzo di carta un desiderio che non osava profferire ad alta voce e che mi costrinse a bruciare il biglietto e a guardare sconvolto le stelle.
Accennerò soltanto che i suoi progetti riguardavano il dominio dell’universo visibile e oltre; che secondo quei disegni la terra e le stelle avrebbero dovuto muoversi ai suoi ordini e i destini di tute le cose viventi avrebbero dovuto appartenergli.
(…)
Una notte i venti che soffiavano da spazi ignoti ci spinsero irresistibilmente verso il vuoto illimitato al di là del pensiero e dell’essere. (…) Lacerammo in rapida successione una serie di ostacoli viscosi e mi resi conto che ci eravamo spinti in luoghi molto più lontani di quelli dove eravamo stati fino a quel momento. Nell’oceano di spazio ignoto il mio amico mi precedeva vertiginosamente, e sull’immagine mnemonica del volto luminoso e giovane vedevo un’espressione di sinistra esultanza; poi, all’improvviso, la faccia che galleggiava nel vuoto si oscurò e scomparve, e in un breve spazio fui proiettato contro un ostacolo che non riuscivo a superare.
(…)
Lottai con tutte le mie forze e arrivai alla fine del sogno drogato; aprii gli occhi materiali e vidi lo studio nella torre, dove il corpo dell’altro sognatore era rannicchiato in un angolo, pallido e ancora incosciente. La luna proiettava raggi d’oro sui lineamenti statuari, rendendoli fantastici e ascetici insieme. Dopo un breve intervallo il corpo si agitò (…) non so descrivere le sue urla, la luce impossibile dei suoi occhi impazziti dal terrore in cui si accesero, per un istante, visioni d’inconcepibili inferni; so solo che svenni e non mi ripresi fino a quando lui stesso mi scosse, ormai sveglio e alla disperata ricerca di qualcuno con cui condividere l’orrore e la desolazione.
Quell’episodio segnò la fine delle nostre ricerche volontarie nelle profondità del sogno.
Sconvolto, in preda al timor sacro e profondamente cambiato, il mio amico mi avvertì che non avremmo mai più dovuto spingerci nell’abisso.
Non ebbe il coraggio di dirmi quello che aveva visto oltre la barriera, ma dagli insegnamenti che aveva tratto giudicava che per il nostro bene la cosa migliore fosse dormire il meno possibile, a costo di prendere droghe per restare svegli.
(…) Dopo ogni breve sonno sembravo più vecchio, mentre il mio amico degenerava a una rapidità quasi sconvlgente. E’ orribile vedere i capelli che sbiancano e le rughe che s’incidono nella pelle sotto i nostri occhi, e il modo di vivere che avevamo adottato fino ad allora cambiò completamente.
Il mio amico, che non mi aveva mai confessato il suo nome e le sue origini, ma che conoscevo per un recluso, era ossessionato dalla paura della solitudine.
(…) Il suo unico sollievo consisteva nel far baldoria in modo chiassoso e il più sfrenato possibile, sicché poche comitive di giovani e gaudenti ci erano sconosciute. Il nostro aspetto e la nostra età a volte suscitavano un ridicolo offensivo, ma il mio amico lo considerava un male minore della solitudine. La cosa che temeva di più era trovarsi fuori casa quando splendevano le stelle, e se questo avveniva le guardava spesso e con ansia, come inseguito da qualcosa di mostruoso nel cielo. (…) Ci vollero due anni perché collegassi quelle paure a un oggetto particolare, ma alla fine mi resi conto che dovevo cercare il punto dela volta celeste che, a seconda delle stagioni, corrispondeva al suo sguardo. La zona in questione corrispondeva vagamente alla costellazione della Corona boreale.
Avevamo aperto uno studio a Londra e non ci separavamo mai, ma non parlavamo dei giorni in cui avevamo cercato di sondare i misteri del mondo irreale. Eravamo vecchi e indeboliti dall’uso delle droghe, dalle dissipazioni, dalla tensione nervosa (…) raramente cedevamo più di un’ora o due alla condizione che prometteva una così orribile minaccia; poi venne un gennaio di nebbia e pioggia in cui non avevamo denaro e non potevamo comprare le droghe. Le mie statue e le teste d’avorio erano vendute dalla prima all’ultima (…) Soffrivamo terribilmente e una notte il mio amico sprofondò in un sonno da cui non riuscii a svegliarlo. (…) il respiro profondo, sinistro e regolare del mio amico sul divano… sembrava la misura della paura e delle sofferenze del suo spirito, perduto in sfere proibite, inimmaginabili e orribilmente lontane.
La tensione della veglia si fece opprimente (…) sentii un orologio suonare da qualche parte (non il nostro, che non suonava) .. orologi… il tempo, lo spazio, l’infinito… Poi tornai al presente e mi dissi che la Corona boreale stava per sorgere a nordest. (…) E all’improvviso le mie orecchie individuarono una componente nuova e distinta nel concerto di suoni amplificati dalla droga; un sibilo basso e insistente che veniva da lontano; un richiamo beffardo, incessante, ronzante che veniva da nordest.

Ma non fu il suono in se stesso a farmi perdere i sensi e a imprimere sulla mia anima un marchio di terrore che in tutta la vita non riuscirò a cancellare; non fu quello a provocare le urla e l’agitazione che attirarono vicini e polizia e li indussero ad abbattere la porta. Non fu ciò che sentii ma ciò che vidi, perché nella stanza buia, chiusa a chiave, con le tende e le impose tirate era apparso dall’angolo di nordest un terribile fascio di luce osso-oro. La luce si concentrava sulla testa del dormiente e formava davanti a me un duplicato della faccia giovanile che avevo visto con gli occhi della memoria tutte le volte che mi ero avventurato nell’ignoto. (…)

Mentre guardavo vidi la testa che si alzava, gli occhi neri, liquidi e profondamente incassati che si aprivano dal terrore e le labbra sottili, in ombra, che si dividevano per mimare un urlo troppo spaventoso per essere emesso. Nelle tenebre splendeva una faccia inflessibile e spettrale, incorporea ma ringiovanita (…)
Seguii lo sguardo della faccia ringiovanita, che risaliva al punto d’origine della luce e del suono, e lungo il fascio rossastro vidi per un attimo ciò che vedeva il mio amico.
Fu allora che mi abbandonai alle urla e alle convulsioni che richiamarono polizia e vicini, ma non potrò mai descrivere quello che vidi. (…)
Ma sempre mi guarderò dal beffardo e insaziabile Hypnos, signore del sonno, che si agita nel cielo della notte, e mi difenderò dalle pazzesche ambizioni della conoscenza e della filosofia.
(…)
Mi dissero, non so per quale ragione, che non avevo mai avuto un amico e che la mia tragica vita si era riempita esclusivamente di arte, filosofia e follia. Inquilini e poliziotti cercarono di calmarmi e il medico mi diede un sedativo, ma nessuno sembrò accorgersi della terrificante tragedia.
La sorte del mio amico non li commosse, ma ciò che trovarono sul divano dello studio li indusse a lodarmi con parole che mi disgustarono e che oggi mi hanno portato a una deprecaile fama.
Calvo, con la barba lunga, affranto e divorato dalle droghe, me ne sto seduto per ore davanti all’oggetto che fu trovato nello studio, adorandolo e pregandolo.

La gente nega che avessi venduto la mia ultima statua e indica con meraviglia ciò che il fascio di luce rossa aveva tramutato in pietra muta, incapace di emettere un ultimo grido.
Eppure è tutto quello che rimane del mio amico, l’amico che mi ha spinto sull’orlo della follia e del naufragio: una testa divina, di un marmo che solo l’Ellade può dare; un volto giovane, di una giovinezza che trascende il tempo, con le labbra curve e incorniciato dalla barba; una fronte olimpia con i capelli mossi e cinti di fiori.

Dicono che quel volto stregato sia modellato sul mio quando avevo venticinque anni, ma sulla base di marmo è scritto un altro nome, nelle lettere d’Attica: HYPNOS.

(H. P. Lovecraft, Hypnos, Maggio 1922).

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