“Chi bussa, in nome di Belzebù?”

È il primo di gennaio del Duemilaediciassette.
L’aria fresca, il cielo terso, inducono a una passeggiata: tra un paio d’ore lascerò Edimburgo, fisicamente; ma l’atmosfera di una città di guerrieri mi rimarrà dentro a lungo e sarà la molla che mi spingerà a tornare.

Ultimo giro ai piedi della rocca, in quell’avvallamento che è stato un tempo acquitrino e che oggi ospita i binari della ferrovia, qualche giostra e poi l’enorme chiesa di San Cutberto, e il suo cimitero.
I rami compongono una scura cornice attorno alle ultime istantanee, atte a imprimermi meglio nella memoria la silhouette che si staglia sopra la rocca.
Scendo le scale e mi aggiro per il cimitero della chiesa, un luogo al di fuori del tempo, che sembra aprire una porta verso gotici romanzi ottocenteschi.

 

Un cartello avverte la presenza di almeno due figure di importanza scientifica e letteraria internazionale: l’inventore del “logaritmo” e lo scrittore Thomas de Quincey.

Un fumatore di oppio, Thomas, che ha pensato di affrontare una sorta di terapia personale elaborando la propria dipendenza in un romanzo autobiografico: Memorie di un fumatore di oppio, appunto. E bisogna aspettarsi memorie non troppo lucide, ma forse realtà distorta attraverso i fumi di questa affascinante droga.
Nato non distante da Manchester, ma sepolto a Edimburgo.
Thomas ha scritto numerosi saggi sulla morte, altrettanti articoli di critica letteraria, e alcuni pamphlet.

Continuo a girovagare tra le lapidi umide di muschio, calpestando un terriccio morbido, torba compatta fatta di foglie macerate dall’acqua della notte precedente.
I nomi sono poco leggibili, quel che conta sono gli scorci: attraverso le sagome rettangolari di pietra grigio-blu, si vede il castello, si distinguono le finestre, chiaramente. Ci si immagina un profilo di chi si ostina ancora a non lasciare questa terra, vagare al lume di candele settecentesche, nei piani alti delle torri di guardia.

La Scozia, perciò Macbeth: il Lord che volle farsi Re, aiutando il destino svelato da tre streghe, ma senza poter evitare la profezia finale, che lo condannava a una gloria effimera, velocemente spezzata dai colpi della giustizia. Il castello di Edimburgo evoca anche lui, forse proprio lui. Macbeth e Duncan, il re di Scozia, sacrificato all’avidità di Macbeth e di sua moglie.
Anche de Quincey conosce la tragedia scespiriana, e scrive un saggio.

Aggirandosi per il cimitero di San Cutberto possiamo forse immaginare la voce stessa dell’autore che ci illustra il suo punto di vista. Indicandoci, innanzitutto, il castello e il suo cancello.
La teoria di de Quincey è semplice: nel leggere Macbeth, fin da ragazzo, lo scrittore è sempre stato colpito da una specifica scena. Quella dell’arrivo di McDuff: almeno 20 versi impiega il guardiano delle porte del castello di Macbeth, prima di giungere ad aprirle, e nel frattempo la didascalia del testo teatrale ci dice che stanno bussando. “toc toc” il guardiano si lamenta, troppa gente che va e che viene. “CHI BUSSA, PER BELZEBU?!!

Shakespeare ha appena finito di descrivere l’assassinio efferato e tra solo poche decine di versi Macbeth entrerà nella stanza di Duncan e lo “troverà” morto, fingendo sopresa e uccidendo i servi del Re. Ma Thomas de Quincey rimane scioccato dal suono rimbombante e insistente al portone.

La spiegazione è tanto semplice quanto profonda: avete presente quando in un testo viene descritto uno svenimento? Qual è il momento di emozione più intensa? Non quando la dama sviene, ma quando leggiamo del sospiro che emette nel momento in cui rinviene. Così come in altre circostanze tragiche, il lettore non può concepire fino in fondo il gesto estremo (di un omicidio, di un suicidio), non può immedesimarsi con un omicida, ma trasalisce insieme ai protagonisti non appena la sospensione del tempo dell’assassinio viene spezzata dal ritorno alla realtà.

McDuff che bussa alle porte ci dice che quel che abbiamo letto è accaduto davvero. La morte è davvero stata somministrata, ora Macbeth dovrà fare del suo meglio per celare il suo ruolo, ma quella parentesi di follia si è chiusa: qualcuno bussa, lasciamo che entri e faccia continuare la concatenazione di eventi, scatenata da Macbeth e dalla consorte.

Mi ha fatto tornare in mente un interessante escamotage, adottato anche dai Greci: il resoconto dell’araldo. Nella fattispecie il resoconto dell’assassinio di Agamennone, nella tragedia omonima di Eschilo. Il compito dell’araldo è quello di descrivere minuziosamente l’agguato di Egisto e Clitemnestra. Certo, era impossibile pensare di rappresentare un omicidio sul palcoscenico, ma questa scelta obbligata del racconto di un terzo, in realtà crea ancora più pathos, perché non permette di fuggire dalla realtà degli eventi così orrendi.

Concludo il mio giro tra le tombe di San Cutberto: la luce smussa gli angoli vivi delle lapidi, mentre l’odore del muschio si mescola a quello delle foglie macerate e ad una leggera brezza di cenere, residuo delle celebrazioni della sera prima.
L’eco dei colpi che McDuff vibra al portone di bronzo e legno, risuona nella valle sottostante il castello e mi richiama alla realtà: le due ore sono passate, è tempo di salire sul treno e lasciare Edimburgo.

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