Il mito dipinto: Io e Giove

Antonio Allegri detto Correggio, Giove e Io, 1532-1533
Conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna

quando il Tonante, ravvolta la terra di vasta nebbia, nasconde la ninfa, la ferma e le toglie il pudore

Ovidio, Metamorfosi, libro I vv. 598-9

Sono giornate nuvolose e umide di una pioggia primaverile che fa rabbrividire, per questo ho pensato di spendere due parole riguardo a un dipinto che considero estremamente moderno per l’epoca in cui è stato realizzato. Si tratta del dipinto a soggetto mitologico realizzato da Correggio intorno al 1530 e raffigurante l’amplesso di Giove con la ninfa Io, figlia del dio fluviale Inaco.

Una storia complessa

La figura di Io mi ha sempre affascinato, perché la sua storia è tanto inverosimile – eppure nel mito greco ci sono personaggi o episodi davvero incredibili – quanto fondamentale nel tracciare un legame solido e atavico tra la cultura greca e quella egizia. Se è vero che il mito esprime sottoforma di racconto immaginifico anche eventi storicamente verificabili, beh, con il mito di Io si raggiungono livelli che danno vertigini. Eppure, la storia dell’arte registra non moltissimi esempi di raffigurazione di questo mito; alcuni li abbiamo esplorati con l’episodio precedentemente analizzato: l’uccisione di Argo, il guardiano di Io trasformata in giovenca.

Non sono riuscita a trovare un’immagine antica con Prometeo e Io.
Questo fotogramma appartiene a un film spagnolo del 1969.

Tra le fonti più antiche troviamo Eschilo e il suo Prometeo incatenato. Permettetemi di suggerirvi una lettura coinvolgente ed estremamente moderna, che analizza la sorte del titano alla luce della sua ribellione al volere divino, ma da persona perfettamente consapevole delle conseguenze del suo atto (pro-meteo, da προμανϑάνω, è colui che conosce prima gli eventi): dunque, in ultima istanza, una riflessione sul concetto di libero arbitrio, ma fatta nel V secolo a.C. e nei versi scolpiti nel bronzo del grande tragico. Dunque, Prometeo incatenato riceve la visita di una donna dal volto di giovenca; è incredibilmente spaesata e ha un tafano che la tormenta, sta viaggiando da mesi e non sa più dove si trova e soprattutto dove sta andando! Il titano si fa raccontare quel che già sa e poi le rivela che le sue peregrinazioni avranno fine in Egitto, dove finalmente potrà fermarsi, partorirà il figlio di Zeus e riacquisterà le sembianze umane.

Il contatto in un nome

Epafo sarà il nome del bambino, letteralmente “il tocco”. Perché il tocco di Zeus ha ingravidato la donna. Questo bimbo avrà l’enorme responsabilità di annoverare nella sua progenie, dopo generazioni, anche Danao, il padre delle cinquanta giovani sfuggite all’odioso matrimonio con i cugini. La figura di Io, nel panorama mitologico greco, è perciò di enorme importanza, perché costituisce un anello di congiunzione con la civiltà alla quale gli Elleni si sentivano più debitori, quella egizia. Non a caso, Erodoto tenterà un’estrema storicizzazione degli eventi e interpreterà le vicende di Io con antiche razzie e scambi di schiavi.

La dea con le corna

Io accolta da Iside
affresco pompeiano

Io trasformata in giovenca viene raffigurata raramente con le sembianze animalesche, per lo più troviamo una bellissima donna con un paio di corna! Ma anche in questo caso, il pittore non indulge nella caricatura, bensì rende le due punte come un crescente lunare e così la ninfa diviene una sorta di personificazione della luna, o per lo meno di una sua fase. Inevitabile ripercorrere il fiume in piena del sincretismo religioso e associarle Hathor, la dea-mucca, e soprattutto Iside, la dea dai mille nomi, spesso raffigurata nell’atto di allattare il figlio Horus e identificata anche con la luna.

Se Io è la luna eterna peregrina, come la vedrà un pastore errante dell’Asia qualche secolo dopo, Argo e i suoi cento occhi sono indicati da Ovidio stesso come le stelle del firmamento: la simbologia è completa, eccoci dinanzi a un ennesimo mito cosmico che rende poetico il mistero del creato.

Una committenza complicata

Come se non bastasse la ricostruzione perigliosa del mito, anche il quadro di Correggio ha sollecitato diversi studi, ancora non compiuti del tutto. La ricostruzione più probabile lo colloca in un ciclo di dipinti ispirati agli “Amori di Giove” richiesti da Federico II di Gonzaga e da questi poi regalati all’imperatore Carlo V, perciò oggi ritroviamo la tela a Vienna.

In quanti modi ti amo?

La scelta di Correggio è estremamente moderna, come dicevo all’inizio, e l’analisi di Melania Mazzucco chiarisce bene la peculiarità della forma artistica. Nella serie di testimonianze artistiche che ritraggono il momento dell’amplesso non si vede nulla del genere e, a ben vedere, anche il racconto ovidiano, fonte principale per Correggio e per i pittori impegnati in soggetti mitologici tra Cinque e Seicento, descrive uno scenario molto più idilliaco e consueto: Giove cerca un po’ di privacy, soprattutto rispetto alla gelosia della moglie, e, da bravo dio del cielo e delle nubi, avvolge il luogo dell’incontro con una fitta nebbia. Soprattutto, tutte le fonti sono concordi nel descrivere Io come una ragazza impaurita dal dio, preda delle sue voglie, addirittura ricattata: se non si concederà, suo padre Inaco subirà l’ira di Zeus.

Ma Correggio è alla fine della sua carriera, celebrata per quei soffitti vaporosi di nubi. Perciò, da una parte immagina una scena sensuale, e dall’altra prende alla lettera la natura di Giove e ne fa nuvola che abbraccia: il particolare del volto umano che bacia Io e quello sbuffo che stringe a sé le carni della bella ninfa (la quale, a sua volta, cerca il contatto solido con la nuvola divina), sono destinati a incantare chi guarda e a fargli provare la pervasività del tocco divino.

Da notare che, per tradizione, qualunque donna si trovasse dinanzi alle vere fattezze di una divinità era destinata a esserne consumata, vedi la tragica fine di Semele. Qui Giove sembra aver scelto una foggia non aggressiva, come la pioggia dorata che ingravida Danae, eppure più confacente al suo ruolo di dio “adunatore di nembi” (νεϕεληγερέτα).

Un mito cosmico trova spazio nel cosmo

Ogni volta che penso a Io, alla violenza di cui è stata vittima due volte, una perché aggredita dalla voglia del dio e l’altra perché trasformata in animale a coprire una colpa non sua, non posso fare a meno di riflettere sulla terribile ironia che ha fatto battezzare Io uno dei satelliti del pianeta Giove. Pare che i nomi di Io e di Europa per i satelliti di Giove furono elaborati in pieno Seicento, dunque in un’epoca in cui le vicende delle due donne venivano narrate come sensuali incontri amorosi. Nulla di più logico che identificare Io con una luna in orbita attorno al pianeta, immagine della ninfa che compie il suo desiderio nella contemplazione del dio.

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