Qui ad Atene noi facciamo così

Cosa è accaduto ai marmi del Partenone, perché sono oggi a Londra, perché sarebbe opportuno farli tornare ad Atene e cosa sta decidendo il British Museum.

Qui, ad Atene, noi facciamo così: nel 1982 decidiamo di chiedere ufficialmente al governo inglese di rimpatriare i marmi che Thomas Bruce, il settimo Conte di Elgin sottrasse all’Acropoli tra il 1801 e il 1808. Lord Elgin era ambasciatore inglese presso Costantinopoli e chiese dapprima il permesso di fare dei calchi di alcune delle statue dei frontoni e delle metope, ma alla fine riuscì a smantellare le statue ed allestire ben due navi. Il governo inglese acquisì questi marmi, sulla base del resoconto dell’ambasciatore, il quale assicurava che il Sultano gli aveva permesso di portare via dall’Acropoli ciò che voleva.

E scegliamo, come nostra portavoce, l’attrice simbolo di una Grecia moderna, protagonista sul grande schermo, volto che sembra una maschera tragica, ma dal sorriso contagioso. Melina Mercouri diviene ambasciatrice di un ideale, che sembra rivoluzionare non solo il mondo della cultura europea, ma, più in generale, il rapporto di forze tra colonizzatori e colonizzati.

Qui, ad Atene, noi facciamo così: pensiamo che l’Acropoli sia un simbolo vivo, forse l’anima vera della città. Per questo arriviamo a minacciarne l’integrità, per combattere contro un regime fascista che sta uccidendo la libertà dei suoi cittadini. L’Acropoli è un luogo di storia e per la storia, è la tragedia di Egeo, il sacrificio di Aglauro, l’incendio dei Persiani, la fossa in cui seppellire le statue consacrate, la cannonata di Morosini, la dissacrazione ottomana, lo scempio inglese.

Quella rocca resiste ai millenni e affonda sempre di più le sue radici, raggiungendo il centro della terra o anche solo quella fonte di acqua salata che ricorda al mondo la gara tra Atena e Poseidone.

Veduta dall’alto del Museo dell’Acropoli, incastonato nel quartiere di Makrigianni. L’ultimo piano è in linea con il Partenone sull’Acropoli. (Foto: https://www.parthenonuk.com/the-case-for-the-return)

Qui, ad Atene, noi facciamo così: smantelliamo un museo storico, ma desueto, e ne costruiamo uno alle pendici dell’Acropoli. Lo facciamo in mezzo a centinaia di polemiche, distruggendo edifici neoclassici, calandolo nel mezzo di un quartiere tradizionale come un monolite spaziale, ma creando una realtà museale che il mondo ci invidia. Il museo aspetta i suoi marmi, mentre all’ultimo piano le pareti finestrate aprono un dialogo diretto tra la sala e il Partenone e i calchi dei frammenti inglesi rimarcano la ferita aperta, l’attesa struggente del rimpatrio.

Qui, ad Atene, noi facciamo così: promuoviamo la nascita di decine di comitati, sparsi per il mondo, e sensibilizziamo rispetto a un problema che non è solo legale, non solo storico, non solo museologico, non solo artistico, non solo culturale, non solo emotivo, ma tutti questi aspetti insieme. Non parliamo di restituzione, perché non si tratta di restituire il mal-tolto, ma parliamo di riunificazione, perché ciò che è accaduto con l’azione di Lord Elgin è stato uno strappo, che va ricucito.

Riunificare, rendere meglio fruibile una realtà che ha senso solo nel suo contesto di origine, altrimenti è uno dei tanti trofei, una testa di leone/elefante/tigre/cervo che guarda con occhi spenti da una parete bianca: morte che evoca vita, gloria in potenza a beneficio di pochi, che si credono più vivi. Nel 2010 l’allora direttore del British Museum pubblicò un libro di grande successo: “La storia del mondo in 100 oggetti”. Si trattava di ribadire il concetto su cui era stata fondata l’idea stessa del British Museum (e non solo di questa istituzione, ovviamente): il potere dell’impero che colonizza e diffonde cultura e civiltà viene riassunto ed esaltato da oggetti raccolti in ogni dove, attraverso i quali è possibile riassumere la storia del mondo. Il visitatore del British Museum può osservare il mondo nelle sale del museo e tra i tanti pezzi si trova anche una metopa del Partenone.

n.27 dei 100 oggetti

Ma forse è proprio questo il problema, caro British Museum: tu puoi raccontarti e raccontare che la tua collezione simboleggia il cammino della civiltà nel mondo, ma quella metopa, da sola, non racconta niente altro che l’avidità di una rapina ben orchestrata. Quell’unico pezzo, staccato dai suoi naturali compagni, non è stato salvato dall’oblio, bensì ne è stata corrotta la memoria, mutilata nel suo svolgersi insieme agli altri elementi della trabeazione. Un racconto interrotto, ecco cosa hai ottenuto. Ebbene, è tempo che il racconto torni a compiersi, che le decisioni giuste vengano finalmente prese e non solo ipotizzate, che le vicende storiche diventino la cornice preziosa di una risoluzione auspicata da tempo e, a suo modo, innovativa.

Qui, ad Atene, noi facciamo così: accogliamo volentieri un piede da Palermo e alcuni frammenti da Roma, perché sono vestigia di un modo di allestire i musei che oggi più che mai offende studiosi, appassionati e semplici curiosi. Oggi sappiamo che qualunque frammento è degno di interesse e che il contesto è il migliore allestimento, in ogni mostra o percorso museale. Per questo il contesto ateniese richiama a sé anche i frammenti più piccoli.

Ecco come si presentava il frammento nelle sale del
Museo Archeologico Regionale “Antonino Salinas”

L’Italia ha già sperimentato l’emozione di vedersi restituire oggetti finiti illecitamente in altri musei, adottando una soluzione fondata sullo “scambio”: l’oggetto sottratto viene restituito a legittimo proprietario, che in cambio presta qualcosa della propria collezione al museo straniero che aveva incautamente acquistato l’oggetto. Lo stesso viene proposto ora per mantenere amichevoli i rapporti tra Atene e Londra.

Elginism

Negli ultimi mesi sembra infatti che il dialogo tra Atene e Londra si sia intensificato e soprattutto si sia orientato verso proposte concrete. Il profilo Twitter @elginism aggiorna sugli ultimi sviluppi.

Qui ad Atene noi facciamo così

Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni

ateniese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la fiducia in se stesso,

la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la

nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero

…ma gli chiediamo rispetto

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La sostanza dei sogni – parte seconda

Cinema e archeologia

Cinema e archeologia, che accostamento affascinante! Tutto il mistero di un’occupazione che sembra essere stata creata solo per pochi adepti e che odora di muffa – spesso – ma anche di pietre e di spazi aperti, che sembra brandire – alternativamente – la frusta di Indiana Jones e il pennello di un anziano barbiere, unito alla “magia del cinema”.

La magia del buio e dell’ignoto – chissà com’è che sullo schermo compaiono le vite di persone così distanti da noi, eppure vicinissime – e la possibilità di lasciar andare a briglia sciolta la nostra fantasia, ché tanto, nel buio della sala suddetta, nessuno sa veramente cosa stiamo pensando, nessuno ci rivolge domande, ma ognuno di noi può perdersi nei meandri delle proprie associazioni mentali.

L’eclettico Lorenzo Daniele nella sua funzione di presentatore

Quando racconto che il secondo fine settimana di ottobre lo trascorro a un Festival del Cinema archeologico, i miei amici e conoscenti restano a bocca aperta. Eppure ormai ce ne sono tanti, in giro per la penisola, per non parlare di quel che accade in altre nazioni europee (e non), dove forse sanno distribuire meglio le produzioni cinematografiche di questo tipo. Ma torniamo a Licodia Eubea e al suo fascino, che si sprigiona allorché Lorenzo Daniele e Alessandra Cilio arrivano con il loro gruppo di lavoro e allestiscono la macchina dei sogni per eccellenza, il cinematografo; prima in una badia ex chiesa e da quest’anno nel cosiddetto “teatro della legalità”, che offre un contesto più facilmente identificabile con la sala di un cinema.

L’edizione di quest’anno, la dodicesima, ha portato a Licodia molti registi e molte produzioni diverse, dopo una selezione fatta in base al tema portante: il superamento dei confini, sia fisici che ideologici, generazionali oppure sociali. Il risultato è stato, come sempre, un caleidoscopio di frammenti di storia e società e voglio provare a isolare qualche aspetto.

Lo stupore della morte

Alessandra Cilio consegna a Jérome Scemla il premio “Archeovisiva” assegnato da una giuria internazionale.

Quando dialogo con i miei studenti e presento loro gli aspetti più quotidiani del vivere antico, non posso fare a meno di partire dalle tombe: è il destino dell’archeologo, quello di interrogare principalmente i corredi funebri e di restituire la vita attraverso gli oggetti che circondano i morti. Perciò devo ammettere che, quando Jérome Scemla, regista di “Perou, sacrifices au Royaume de Chimor”, ha avvisato il pubblico di alcune scene di forte impatto emotivo nel suo film sulla scoperta di cimiteri di bambini sacrificati tra il Quattro- e Cinquecento in tre grandi aree dell’antico regno di Chimor, non pensavo che mi sarei impressionata più di tanto.

In effetti il momento più difficile, per me, è stato guardare le scene tratte da filmati improvvisati con cellulari, fatti da chi stava assistendo in diretta alle inondazioni e frane prodotte da El Niño, pochi anni fa. Questi filmati servivano a contestualizzare meglio la decisione disumana di sacrificare i propri figli alle divinità della montagna: ciò che i peruviani moderni hanno subito, pur conoscendo in anticipo ciò che li aspettava e avendo a disposizione alcuni mezzi per mettersi in salvo, deve essere sembrato l’Apocalisse agli abitanti di Chimor, i quali avevano solo le preghiere e i sacrifici a loro disposizione per tentare di sopravvivere alle calamità ineluttabili.

Uno dei corpi mummificati dei piccoli di Chimor

Ma le immagini moderne mi hanno addolorato più del rituale antico, per il quale, nonostante la drammaticità di quei resti bambini, ho evidentemente più strumenti di comprensione e accettazione. Senza contare le “sabbie del tempo”, in questo caso molto concrete, va detto, che seppelliscono il fatto e creano uno strato necessario alla rimozione.

Gabriel Prieto, l’archeologo che ha dato inizio agli scavi

Il film ricostruisce in realtà la storia della scoperta fortuita delle prime tombe e segue archeologi e antropologi nella loro ricerca: chi ha ucciso questi bambini, quando, perché? A cui si aggiunge un “dove”, nel momento in cui, dopo la prima area cimiteriale ne spuntano altre. La storia dei bambini di Chimor si intreccia con quella degli studiosi e ci viene restituita in modo estremamente realistico attraverso una ricostruzione storica degli eventi, con scene ambientate nel passato remoto in cui si svolsero gli eventi indagati. La chiave di lettura passa attraverso l’umanità dei ricercatori e si avverte prepotente la necessità di comprendere cosa sia successo, per poter accettare anche le realtà più scomode o sconcertanti.

Dario Piombino-Mascali, Alessandra Cilio e Alessandra Morrone sul palco del Festival

L’intervista a Dario Piombino-Mascali e alla sua assistente Alessandra Morrone, uno degli eventi collaterali del Festival, è stata estremamente interessante proprio alla luce del film di Scemla. Dario Piombino-Mascali è infatti antropologo e paleopatologo e, tra i vari titoli e impegni, è anche curatore delle Catacombe dei Cappuccini a Palermo, perciò nel suo intervento si è concentrato sull’aspetto socio-antropologico della decisione di mummificare alcuni dei corpi inumati nelle catacombe.

Il culto dei morti, ma soprattutto dei morti più giovani: Piombino-Mascali ha studiato a lungo la mummia di Rosalia Lombardo e la sua assistente si occupa soprattutto di giovanissimi defunti, delle loro patologie e dei rituali di sepoltura. Quando cominci a studiare materie archeologiche ti viene spiegato che le sepolture infantili più antiche avvenivano sotto il pavimento delle abitazioni, quasi senza corredo, e che ci vollero secoli prima di dare dignità di sepoltura anche ai più piccoli, come se la loro morte fosse un incidente di percorso durante la crescita all’età adulta.

Nel film di Scemla e nelle parole degli antropologi italiani i bambini diventavano episodi, più che persone sepolte: rituali propiziatori oppure manifestazioni di status symbol, di classe sociale (nel caso palermitano). Accanto ai piccoli peruviani gli archeologi hanno trovato anche dei lama, molto giovani, che – pare – in quella cultura erano considerati psicopompi, spiriti che accompagnavano nel viaggio verso l’Aldilà.

L’Aldilà, che espressione poetica e a un tempo vaga e insufficiente. Forse per questo, nell’Aldiquà, la forma estetica del defunto acquista importanza e diventa un vessillo da esibire da parte di chi non riesce a immaginarsi indipendente dalle credenze e dalle superstizioni.

Il rapporto tra vivi e morti è un tema antico quanto il mondo, io scrivo nel giorno di Ognissanti, quando la porta tra i due mondi è resa visibile dalla luce di fuochi, lanterne, candele, lumini, simboli di speranza e di fede, luci che salvano, ma in realtà illuminano un mondo che è sempre lì (qui) attorno a noi, solo che a noi piace dimenticarlo e ricordarcene unicamente in momenti codificati dalla società, possibilmente in riti collettivi.

Tutti santi, siamo, All-Hallow, tutti santi saremo.

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La sostanza dei sogni – parte prima

Quando va bene, la società tende a guardare i sognatori con occhio tollerante

Will Eisner, The Dreamer

L’archeologia sullo schermo, il principio di Licodia

Due settimane fa si concludeva la XII edizione del Festival della Comunicazione e del Cinema Archeologico, organizzata a Licodia Eubea da Lorenzo Daniele e Alessandra Cilio. Per me si è trattato della quinta partecipazione, in qualità di amica e appassionata sognatrice.

In questi cinque anni ho potuto osservare Lorenzo e Alessandra all’opera, coadiuvati da un gruppo coeso e sempre più efficiente di ragazzi e ragazze coinvolti e convinti dall’energia dei due direttori artistici, i quali, a loro volta, possono contare su Mauro Italia, imprescindibile in cabina di regia per coordinare le proiezioni. Ma di tutti gli aspetti tecnici su cui potrei soffermarmi nel descrivere la collaudata macchina del Festival di Licodia, nessuno potrebbe sostituire l’aspetto umano, il vero motore della manifestazione: il senso di accoglienza che abbraccia chiunque si accosti al gruppo di lavoro e che spinge più di un regista a promettere un nuovo film pur di poter tornare anche l’anno prossimo a Licodia Eubea.

Nei giorni del Festival, ospiti e staff, curiosi e amici, registi e spettatori, tutti noi veniamo coinvolti in un gioco di carte, come quello che è stato proposto ai ragazzi e alle ragazze delle scuole che sono intervenute il venerdì mattina, tradizionalmente dedicato ad attività di laboratorio con classi di quinta elementare e prima media. Le carte servono a stimolare pensieri e associazioni, che diventeranno storie scritte e recitate e – chissà – magari un giorno anche filmate e proiettate.

Le carte di Licodia Eubea sono ogni anno diverse e stimolano la nostra fantasia in modi sempre nuovi, proponendoci di portare le nostre esperienze e ascoltare quelle degli altri. Forse è proprio l’atmosfera del cinema che ci sollecita a sognare a occhi aperti e così, nelle chiacchierate in terrazza oppure tra i vicoli di Licodia, le idee diventano promesse e le suggestioni ricordi.

Esperimenti

“I curtigghiari” – Caminunu talianno e i cosi i tutti sannu. Santino Russo.
Immagine di Pierluigi Longo, dalla mostra “Didascalico!”

Quest’anno Licodia Eubea offriva un altro, ricco mazzo di carte con cui stimolarci: all’interno della Badia, ex chiesa di San Benedetto e Santa Chiara, che fino all’anno scorso aveva ospitato anche lo schermo per le proiezioni, Vincenzo Palmieri e l’Archeoclub di Licodia hanno organizzato la mostra “Didascalico!” con opere di Pierluigi Longo.

Artista eclettico e già celebre autore di numerose copertine di Internazionale, nonché di alcune opere letterarie, Pierluigi Longo ha voluto fare un interessante esperimento culturale, associando ad alcune sue opere, create per illustrare racconti o notizie di cronaca, didascalie elaborate da un gruppo di persone di Licodia Eubea oppure affini al paese o al Festival. Il risultato è stato molto affascinante, perché le composizioni di Longo sono il frutto di un lungo lavoro di interpretazione di un fatto oppure di un concetto, hanno, dunque un punto di partenza spesso complesso e in ogni caso radicato nella realtà. Le letture che ne hanno dato le persone coinvolte, invece, partivano esclusivamente dalla propria reazione di fronte alla composizione grafica, perfettamente ignari dell’originale ispirazione dell’immagine.

Un momento della perfomance di Margherita Peluso e Meline Saoirse alla rocca del Castello Santapau

Sogni, dunque, proiezioni mentali di desideri o di paure, chiunque passi da Licodia Eubea nei giorni del Festival scopre un collegamento diretto con la sua parte più intima e quest’anno, come già nella scorsa edizione, ha avuto la possibilità di entrarvi in contatto grazie alla performance di Margherita Peluso.

L’artista ha infatti organizzato, coinvolgendo Meline Saoirse e Enzo Cimino, due momenti di meditazione. Il primo è stata una performance dinanzi all’ingresso alla Badia, ma il secondo si è svolto nello spiazzo verde in cima alla rocca del Castello Santapau: qui, come l’anno scorso, la comunità licodiese ha partecipato attivamente, lasciandosi “manipolare” da Margherita e Meline, mentre il suono del tamburo e la ripetizione di parole e frasi invitavano alla trance. A coppie, gli spettatori sono stati “connessi” tramite uno spago, unendosi alle due donne nell’invocare parole di armonia e comunione con la natura.

Come già l’anno scorso, quello che mi affascina della performance di Margherita è la naturalezza con la quale ella riesce a coinvolgere le persone: nei suoi movimenti, nella espressione del suo viso, si avverte la sincerità e la genuinità di chi compie degli atti mai forzati, mai studiati, ma naturali. Secondo me è proprio questa “verità” che convince gli spettatori a darle fiducia.

Sognatori, ecco chi siamo noi che ci ritroviamo a Licodia Eubea a ottobre, sognatori che vogliono recuperare i propri sogni …

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Appunti estivi. 3

Polvere di dio.

In tre giorni ho consumato un libro decisamente interessante: “La nascita di Venere”, di Sarah Dunant. Affresco – è il caso di dirlo – romanzato della Firenze di Savonarola, il libro è la storia di una ragazza estremamente colta e dotata per la pittura, figlia di un mercante, alle prese con la propria crescita e le brutture del mondo, soprattutto quello della Nuova Gerusalemme annunciato da Girolamo Savonarola. Le emozioni più forti della giovane sono però affidate alla sua passione per il disegno e il colore, perciò comincerò da queste:

Annuii, incapace di parlare, e mi diressi al tavolo. Sfilai il gancio di alcune scatole e feci scivolare le dita nelle polveri: il nero compatto, il giallo acceso del croco toscano e l’intenso giallo di Napoli, con la promessa del verde di un centinaio di alberi e piante contenuti in un solido pezzo di roccia. Una varietà stupefacente di colori che erano come il primo raggio di sole sulla città gelata dopo la neve. Mi accorsi di sorridere, ma forse scorrevano anche delle lacrime.

S. Dunant, La nascita di Venere, p.238

I colori del Mediterraneo

Non sono riuscita a trovare la scena del tenente che affresca, ma questi sono i minuti finali del film e, quando torna sull’isola, Raffaele visita la chiesetta e riguarda il suo lavoro.

Leggere il romanzo di Dunant mi ha immerso in un’atmosfera estremamente piacevole, al netto di alcune atrocità che – si sa – in un racconto sulla Firenze circum-Medicea non possono mancare! L’amore della protagonista per i colori e la pittura e il suo cimentarsi nell’affresco di cappelle private mi hanno fatto tornare alla mente un film celebre, vincitore di Oscar, Mediterraneo di Salvatores e così l’ho rivisto. Ricordavo chiaramente le immagini della piccola chiesa che il tenente Raffaele, decisamente il più improbabile militare mai apparso sugli schermi, riceve l’incarico di restaurare, con sua somma gioia. Naturalmente aggiunge un tocco personale ai volti dei santi e, nella scena del matrimonio tra Farina e Vasilissa, ritroviamo i commilitoni ritratti à la bizantina, con i volti che sembrano essere composti da spicchi di colori in nuances. Pare di vedere ogni spicchio con dentro un numero che corrisponde al colore e il tenente tornato bambino, impegnato a giocare con pennelli e tempere.

Un gioco da bambini

La bellezza delle icone bizantine e poi l’evoluzione nell’arte ortodossa del XVII e XVIII secolo non mi è sempre stata affine: solo la frequentazione con la Grecia mi ha insegnato ad apprezzare quei volti spigolosi e a cercare i dettagli, gli attributi che, esattamente come per le divinità del mondo classico, permettono di riconoscere il soggetto ritratto. Quest’anno, nel mio giro del Mani interno ed esterno, mi sono divertita soprattutto a Monemvasià: insediamento incuneato tra la rocca e il mare, su un isolotto inaccessibile poco sotto Gythio.

Panagia Myrtidiotissa, Monemvasia

Questa a sinistra, per esempio, è una icona tanto semplice quanto ricca di storia: si tratta della Madonna del mirto, la Myrtidiotissa, che è venerata soprattutto a Kythira, ridente isolotto tra il Peloponneso e Creta. Dobbiamo risalire al XV secolo per leggere la storia del pastore cui appare in sogno la Madonna, dicendogli di cercare l’icona nei campi. L’icona c’è, in effetti, ed è in un cespuglio di mirto, che quindi le dà il nome.

Fin qui la potremmo considerare una delle tante icone della Vergine e la sua chiesa a Monemvasià era stata dedicata da esuli cretesi, particolarmente devoti.

Sincretismo

Non sfuggirà però il fatto che il mirto fosse una pianta associata ad Afrodite e che Kythira era considerata una delle possibili isole (insieme a Cipro) sulle cui spiagge era stata sospinta la dea nata dalla spuma del mare.

I culti antichi vengono ripuliti dalla religione che ha avuto la meglio e il paganesimo dorme tra le ciglia di una Vergine e di suo figlio.

Icona mobile della Vergine Zoodochoou Pigis, dipinta da Pavlos Papadopoulos nel 1865, su commissione della associazione dei calzolai. Fa parte della collezione della chiesa dei Tassiarchi di Areopoli, oggi è esposta nel museo Pikoulakis, sempre ad Areopoli.

L’iconografia della Madonna Zoodochou Pigis è ancora più significativa. Si tratta di una Madonna che emerge da una fonte (pigì) che dà la vita (zoodochos) e l’origine di tale immagine è collegata a una chiesa di Costantinopoli dove, intorno al V secolo, una sorgente di acqua miracolosa era stata indicata dalla Vergine apparsa a un soldato romano o all’imperatore Giustiniano. Da Costantinopoli tale immagine ha attraversato i Balcani e viene riprodotta in tutto il mondo ortodosso (non parliamo poi delle vie intitolate a questa Madonna, tutti i centri abitati greci ne hanno una).

Ma a me, ‘amica delle ninfe’ come mi ha soprannominato un amico, scatta subito l’associazione con la medievale “fonte della giovinezza”, un mito che figura anche su alcuni deschi da parto di età rinascimentale e che propone fontane dai complessi giochi d’acqua aspettare il cavaliere o il pellegrino di turno nel folto di boschi sperduti, pronte a offrire ben più del semplice sollievo dalla sete, addirittura una vita eternamente giovane. Queste fonti saranno forse cugine degli specchi d’acqua custoditi dalle ninfe, le quali attendono i giovani che si avventurano nelle radure e li afferrano, trascinandoli a sé e destinandoli a eternare la loro giovinezza oppure accogliendoli e istruendoli nella saggezza del nostro e del loro mondo (pensate alla Dama del Lago, nutrice di Lancillotto).

Persa in questi collegamenti divini mi viene in mente che c’è una fantastica rappresentazione della fonte della giovinezza ne “La Rosa di Bagdad”, filmato d’animazione tutto italiano del 1949. I tre saggi, personaggi buffi della storia, si avviano alla ricerca del protagonista e si imbattono in una fonte, custodita da una grossa donna africana. Si dissetano, ma quella fonte è incantata e la giovinezza che acquistano li fa tornare infanti.

San Giovanni “decollato”

Icona del despotato di Morea, tardo XVIII secolo, raffigurante San Giovanni Battista.
Esposta al museo Pikoulakis.

Nella visita di Areopoli, capoluogo del Mani, non può mancare il museo Pikoulakis: allestito nella casa-torre di questo celebre cittadino di Areopoli, parente del Mavromichalis che portò alla ribellione i Greci contro il potere Ottomano.

La collezione non è ampia, ma può contare alcuni pezzi da novanta, come l’icona della Zoodochou Pigis e alcuni elementi architettonici di basiliche o piccole chiese trovate nella regione del Mani e significativi per delineare uno stile maniota nella decorazione di XI-XIII secolo. Sono noti perfino i nomi di due lapicidi, che firmano alcune opere.

E poi c’è lui, il San Giovanni Battista scarmigliato come al solito, ruvido nel volto e nella exomis, la pelle che lo riveste. L’iconografia è classica: accanto a lui il cartiglio con la frase ben nota:

Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero:

egli preparerà la tua via.

Marco 1.2; Luca 7.27; Matteo 11.10

E poi la testa servita sul piatto d’argento, questa volta dallo stesso santo che indica il proprio martirio. Ma nelle icone ortodosse ci sono le ali e questa è una novità nell’iconografia del Battista. Un indizio lo troviamo nella frase di cui sopra, dove “messaggero” è reso come angelos e dunque una delle creature alate che mettono in contatto i due mondi, umano e divino. Nei Vangeli, inoltre, San Giovanni è associato a Elia, il profeta delle alture (chiese e monasteri a lui dedicati sono proprio in cima ai monti) che alla fine della sua vita ascende in cielo su un carro di fuoco, a metà tra una Medea redenta e l’antico titano solare di cui il profeta porta il nome.

Quindi Giovanni è pronto al volo, dotato di ali scure, bruciato dal sole del deserto, vestito di pelli e nutrito di locuste. La sua iconografia alata si sviluppa in età bizantina, poi conosce una pausa, e infine è ripresa soprattutto in ambito russo a partire dal XVIII secolo.

Il sole illuminante

Restiamo per un attimo sul sole, indossiamo gli occhiali, ché non dobbiamo fissarlo senza protezione! E il sole per me è Sarastro, perché mentre scrivo queste righe sto riascoltando Il Flauto Magico di Mozart, nella edizione del 2003 con una commovente Damrau/regina della notte, un funambolico Keenlyside/Papageno e una dolcissima Röschmann/Pamina.

https://www.youtube.com/watch?v=_4xHyMjBB1o&t=6971s

Una favola iniziatica, al posto del Sole e del suo regno potete mettere Mitra o ancora meglio Iside (l’Egittomania sarebbe scoppiata qualche anno dopo, ma la suggestione egizia è innegabile). Una metafora massonica, è stato detto, ma si tratta solo di un altro nome della iniziazione divina, che a partire da Eros e Psiche si è sempre divertita a mettere alla prova gli esseri umani, con la promessa di un bene superiore.

Giochiamo, dunque, con le immagini e i colori e alimentiamo il nostro animo fanciullo, che ha bisogno di riempire gli occhi di bellezza per poter insegnare al proprio animo a riconoscere la giustizia.

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