Appunti estivi.2

Fondamenta-li

Bello il putto, vero? Ci guarda e ci giudica dall’alto del muro di cinta di un palazzo veneziano che dovrebbe essere questo: https://catalogo.beniculturali.it/detail/ArchitecturalOrLandscapeHeritage/0500158948

Esattamente un mese fa sono tornata a Venezia, questa volta in compagnia di un’amica al suo primo appuntamento con la città. Da “navigata” visitatrice della laguna, quale sono, mi ero offerta di farle da guida, ma, come sempre capita in queste occasioni, Venezia mi ha sorpresa con particolari e luoghi che ancora non conoscevo. D’altronde la città ha preso dall’acqua la caratteristica più saliente: quella di essere in costante movimento e di non essere mai uguale a se stessa.

La passeggiata lungo le Fondamenta alle Zattere è stata, per esempio, la prima novità perché mi ha permesso di conoscere la storia degli Incurabili, i malati di sifilide che attendevano la morte in un ospedale a loro dedicato: l’edificio fu fondato nel 1517 da San Gaetano da Thiene e i degenti erano “incurabili” perché all’epoca non vi era rimedio al “mal francese”.

Sul muro di cinta del palazzo – ma, come vedrete dal link che ho posto sotto la didascalia della foto in alto, non dovrebbe corrispondere all’ex ospedale, oggi sede dell’Accademia di Belle Arti – spicca una targa dedicata al poeta Iosif Brodskij, perché “Fondamenta degli Incurabili” è il titolo di una sua raccolta di scritti veneziani e perché alla città lagunare sono legati momenti intensi e importanti della vita del poeta.

Cartoline da Venezia

Come ho appreso da un Tweet di Paolo Nori, nel museo dedicato ad Anna Achmatova a San Pietroburgo è in corso una mostra con oggetti di Brodskij e tra questi una serie di cartoline, incollate in un libretto intitolato “Ricordo di Venezia”, che sono il primo contatto del poeta con la città italiana. Mi affascina l’idea che la “città da cartolina” per eccellenza riesca a conquistare la curiosità del visitatore colto, proprio attraverso le immagini patinate e da molti considerate blandi cliché.

Concerti Grossi

In questi giorni di caldo senza perdono ho trovato una musica estremamente conciliante, che mi suggerisce immagini di trine e di vestiti fruscianti, di gesti misurati e studiati, di belletto bianco con qualche neo nei punti giusti, di parrucche che assomigliano a nuvole vaporose e ventagli dai colori pastello. Barocco, perché no?

Sono “grossi” in contrapposizione ai concerti con uno o due strumenti. Sono barocchi e spesso associati a immagini veneziane, anche se gli autori dei più famosi hanno provenienze diverse.

Corelli o Händel, ma anche Boccherini: i concerti grossi mi aiutano nella concentrazione ed evocano gli arabeschi della città lagunare, soprattutto di quel capolavoro che è il Palazzo Ducale.

Pavoni incolonnati

Uno dei consigli di lettura che ho affidato alle pagini telematiche dell’Indiscreto è il libro di Ann Byatt, “Pavone e rampicante. Vita e arte di Mariano Fortuny e William Morris”. L’autrice attinge a lettere private e a documenti dell’epoca, cui aggiunge, da par suo, una rara sensibilità nell’individuare l’origine di alcuni aspetti artistici. A marzo ho visitato la casa museo di Mariano Fortuny, riaperta dopo alcuni importanti lavori di ripristino, e ho potuto verificare quanto fosse poliedrica la personalità dell’artista. Nel libro viene citato Proust, il quale credeva che Fortuny avesse trovato nelle decorazioni dei capitelli medievali sparsi per Venezia l’ispirazione per i pavoni arabescati nelle sue bellissime stoffe: un’immagine estremamente poetica e forse anche questa da cartolina. Fatto sta che i capitelli della loggia esterna del Palazzo Ducale hanno stregato anche me, che non ricamo stoffe e non scrivo romanzi, ma mi lascio guidare dalla fantasia e dall’associazione di idee.

Il canto dei pavoni

Un altro titolo consigliato per l’Indiscreto è infatti “Pietre che cantano” di Marius Schneider: uno studio dei chiostri di tre monasteri spagnoli, elaborato negli anni ’70 e ripubblicato nel 2019 per le edizioni SE. Schneider è stato un musicologo di fama internazionale e si è occupato soprattutto della musica e delle annotazioni musicali nei Veda, interpretando immagini cosmogoniche alla luce delle teorie musicali più antiche. I pavoni, nella lettura di Schneider, corrispondono al re e così, prendendo come “legenda” alcune antifonie gregoriane, l’autore associa le note alle figure ritratte sui capitelli tra XIV e XV secolo e cerca di dare un senso anche alle scene più oscure, quelle che facciamo fatica a riconoscere anche nei più oscuri episodi della Bibbia.

La sua lettura è tanto affascinante quanto potenzialmente sovvertibile, però l’importanza della musica per l’animo umano, anche per quello recluso e soprattutto per la versione divina dell’uomo, ovvero il sommo creatore, è un fatto indubbio. Ogni suono che avvertiamo è una musica e ci guida o condiziona nei movimenti più banali.

Se è vero che, come spiega Schneider, note e animali non vengono associate sulla base del suono dei versi di questi, ma seguendo interpretazioni cosmologiche, sorrido al pensiero che i pavoni possano corrispondere al re e non, magari, a un accordo disarmonico e chiassoso, dato che il loro verso è tra i più terribili che abbia mai sentito fare a un animale!

Brodskij e l’archeologia

Ammetto una grande ignoranza: fino a oggi avevo solo sentito parlare del poeta russo, ma non mi ero mai imbattuta nei suoi versi. Per scrivere queste poche righe ho deciso di documentarmi meglio e la prima poesia che mi è venuta incontro (ormai la ricerca su google è determinata da una tale quantità di algoritmi che non riesco più ad attribuire alcun merito alle mie doti di interrogante) è un dialogo con un fantomatico archeologo. A lui Brodskij chiede di smettere di interrogare chi non c’è più, rivendica un oblio (proprio quello che Google ti nega) che lo studioso di cose antiche non riesce a rispettare. Mi affascina tale punto di vista e, pur non condividendolo, riconosco che solo di recente è stato affrontato nelle sedi opportune (centri di ricerca, musei, fondazioni) anche se diretto alla sola questione dei resti umani.

Leave our names alone. Don’t reconstruct those vowels,

consonants, and so forth

J. Brodskij, Letter to an Archaeologist
tramonto dal ponte di Calatrava

Riflessi

Mi aggiro per Venezia insieme alla mia amica: lei entusiasta e alla scoperta di un mondo intatto, io come un’ombra che scivola furtiva lungo gli spigoli delle case e sale e scende i ponti come se le si aprissero davanti per guidarla nel labirinto. Cerco il mio Minotauro, che in tutti questi anni non ho ancora affrontato, ma nel percorso mi lascio distrarre dalla luce che si riflette sull’acqua e mi illude di essere su una barca, anziché sull’isola.

Visito Venezia come se fossi nel bel mezzo di un viaggio, senza meta.

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Appunti estivi. 1

Toccate e fughe

Ci sono architetture musicali che si accordano con la mia voglia di ricordare. In questo momento Glenn Gould – e chi, se non lui? – è in bilico sulla sua seggiola di fronte alla tastiera, sta ricamando quest’aria densa di umidità con la Partita n.1 di Bach in Si bemolle maggiore:

Io e la musica classica abbiamo una lunghissima frequentazione, che nasce da mia madre e dalla sua simbiosi con il pianoforte, specialmente Chopin, tutto. Io con il tempo sono riuscita a crearmi gusti personali. Oggi ho bisogno di Bach.

Stasera, quando tutto il resto sta crollando, ho bisogno di una melodia che mi sorregga.

Ricordi di Rubriche

Da giugno a oggi ho accumulato molte emozioni, che posso consultare “comodamente” nella Galleria di immagini del mio cellulare. Altrettante le ho messe da parte nei libri che ho ricominciato a leggere, sollecitata dall’arguzia di un caro amico.

Torno perciò a sperimentare il cosiddetto troppo pieno, quella sensazione debordante che mi prende quando le cose da dire e da pensare si affastellano le une sulle altre, senza trovare sbocco nella conversazione amicale o nell’aggiornamento selvaggio (selvatico) sui miei canali social.

Cercherò di mantenere una certa regolarità e dedicherò l’agosto 2022 alla pubblicazione di ricordi arabescati intorno alle suddette immagini, perciò potrei dire ricordi antichi rielaborati.

Di viaggi e suggerimenti

Qualche giorno fa la rivista online L’Indiscreto ha pubblicato una serie di suggerimenti di letture estive tra i quali erano anche tre titoli indicati dalla sottoscritta. Il primo di questi è una pubblicazione Mattioli 1885 che è uscita nel 2019 e che ha stazionato da allora sul mio ripiano “Tsundoku“, cioè quello dei libri comprati e non ancora letti. Si tratta di “Ritorno a Costantinopoli”, di Mark Twain.

La prefazione al libro, che ho letto sperando mi desse un po’ di contesto, lascia alquanto a desiderare e si limita a indicare distrattamente tale contesto e a ricopiare ampi stralci del libro. Così ho dovuto recuperare le informazioni principali sul viaggio di Twain: nel giugno del 1867 un piroscafo dal nome evocativo di Quaker City salpa dagli Stati Uniti alla volta dell’Europa e della “Terra Santa”, dunque un tour biblico della Palestina e di Gerusalemme.

L’età dell’innocenza

Twain è a bordo con la moglie e, da bravo reporter del San Francisco Alta California annota impressioni ed eventi, che diverranno materiale di pubblicazione con il titolo “Innocents Abroad”. Un’espressione interessante, dato che l’età dell’innocenza verrà usata qualche decennio più tardi per indicare proprio gli Statunitensi – soprattutto della East Coast – degli anni Settanta dell’Ottocento. Il volumetto che ho letto si limita a descrivere l’arrivo in Grecia, a Costantinopoli, sul Mar Nero e infine a Efeso, ma anche solo in quel lasso di tempo i protagonisti della prima “gita” transoceanica si caratterizzano per la loro naivete, per quel modo un po’ infantile di interagire con l’altro da sé: timorosi all’inizio, poi audaci, infine entusiasti. Mark Twain è noto per il suo sarcasmo e leggere questi appunti di viaggio pone il lettore nel dubbio se prendere alla lettera le tante critiche sferzanti a popolazioni “inferiori” oppure se figurarsi che proprio gli innocenti – che tali non sono – attraversino l’Atlantico e si allunghino nel Mediterraneo con la superiorità culturale di chi pensi di essersi imbarcato in un safari.

L’Acropoli al chiaro di luna

Tuttora ad Atene vengono organizzate visite dell’Acropoli in occasione del panselino, cioè del plenilunio. Ma quello che leggiamo in Mark Twain, soprattutto se siamo abituati a visitare siti archeologici strabordanti di turisti, è una sorta di descrizione dell’Eden: la preistoria di qualsiasi tipo di turismo di massa, quando un gruppetto di audaci statunitensi decide di incamminarsi verso la cittadella ateniese con il favore delle tenebre – perché una visita canonica avrebbe fatto scattare la quarantena degli stranieri, rallentando il viaggio – ma nella magia della luna piena.

Questa veduta dell’Acropoli è esposta al primo piano della Stoà di Attalo, nell’agorà di Atene. Opera di Simone Pomardi, è datata tra il 1801 e il 1805, o giù di lì.

Seguo i passi di Twain e degli altri e cerco di immaginarmi il Pireo e Atene nel 1867, quando ogni veduta dipinta rimanda un paesaggio brullo, pochissimo abitato, con mandrie al pascolo della poca erba e case basse sparse sul territorio. Ma odos Pireos, la strada che collega direttamente il distretto portuale alla città e che è stata ricavata dalla direttrice delle antiche mura temistoclee, la riconosco nelle parole di Twain! E così seguo il gruppetto, che nel frattempo saccheggia alcune vigne, fino ai Propilei, dove le guardie vengono adeguatamente pagate perché concedano il passaggio.

Il ritorno si fa più rocambolesco, perché siamo più vicini all’alba e gli Americani incontrano gli indigeni, descritti come selvaggi da cui scappare, caricature di palikaria e di cattivi dai baffoni folti e scuri e dai pugnali pronti. Sembra di assistere a un’avventura di Karaghioz, dove il gruppo di Statunitensi diventa il goffo gobbo dalle idee brillanti, che sfugge al turco o al greco cattivo di turno.

Vite di cani

Nei capitoli dedicati a Costantinopoli Twain dedica un lungo brano a un aspetto della città che mi ha suscitato vividi ricordi: i cani randagi. Nella mia lunga frequentazione di Grecia e Turchia ho sempre notato la presenza di cani che, anziché suscitare timore, si comportavano come magnanimi boss della strada, pronti a marcare il territorio e a garantire protezione allo straniero (il turista, di solito). Non sono mai stata aggredita da questi cani, anche quando si muovevano in branco, e nel 2004, all’epoca delle Olimpiadi allestite in Grecia, ho letto con curiosità il proclama della sindaca di Atene che intendeva sterilizzare e “chippare” ogni cane randagio, così da tenere sotto controllo quello che era a tutti gli effetti un fenomeno di costume, più che un problema di gestione della sanità pubblica.

Ebbene, mi ha colpito ritrovare in Mark Twain lo stesso tipo di curiosità: nell’immaginarsi la vita di questi cani e il loro girovagare da veri padroni del quartiere tra le strade e i vicoli della città, Twain sfodera tutta la sua vena narrativa, di romanziere che guarda al quotidiano e alla strada per ricreare un contesto sociale complesso.

Souvenir

Un altro brano, meno esteso e probabilmente molto meno importante, ai fini del reportage, ma che mi ha risvegliato un’attenzione direi professionale è quello relativo ai souvenir. Mark Twain descrive in dettaglio l’operazione di un compagno di viaggio, il quale recupera anonimi sassi in riva al mare oppure piccoli blocchi di marmo ai bordi della strada e li infiocchetta con cartellini dalle indicazioni altisonanti: “grosso frammento spezzato del pulpito di Demostene”, “tomba di Aleardo ed Eloisa”, e poi frammenti spacciati per provenienti da dieci diverse città, quando si trattava della stessa manciata di ciottoli, ecc.

La scusa dell’arguto falsificatore era che “la vecchia” non se ne sarebbe accorta, perché questi souvenir sarebbero stati destinati a una vecchia zia. Ma è indubbio che una descrizione così attenta sia stata messa qui da Mark Twain come spia di un’usanza che nel suo Paese stava prendendo sempre più piede: tre anni dopo questo viaggio verrà inaugurato il Metropolitan Museum of Art, e il primo oggetto della collezione sarà un sarcofago romano donato al museo dal vice console di Tarsus. In generale, l’aneddoto del compagno di viaggio millantatore suona come critica di un sistema dove gli “innocenti” sono in realtà pericolosi turisti della cultura del guadagno facile. Lette oggi queste scenette sembrano presaghe di quegli scandali che hanno investito molte istituzioni americane, dove spesso – ahimé – famosi archeologi e storici dell’arte sono stati coinvolti.

Conclusione

Il ricordo di oggi si conclude qua, tra una risata amara e una sarcastica, di fronte alla costa turca e ai ruderi di Efeso, dentro alla grotta dei Sette Sapienti.

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L’alba dentro all’imbrunire

“Ciò che è assolutamente privo di vincoli è libero (…) ma di conseguenza è anche privo di identità, dunque di volontà”

Francesco D’Isa, L’Assurda Evidenza, ed. Tlon, p.15

Il libro appena pubblicato per le edizioni Tlon è, a detta dell’autore, un diario filosofico, che nasce da un episodio personale di sofferenza fisica e si snoda in capitoli che Francesco D’Isa ha voluto rendere fruibili nel modo più lineare possibile, dunque dando loro una struttura chiara e ripulita da divagazioni. Allora ho pensato che le divagazioni le avrei portate io e ho deciso di scrivere questo post.

Leggere “L’assurda evidenza” mi ha suscitato ricordi lontani, di un’adolescenza alla ricerca di qualche spiegazione consolatoria rispetto all’avvicendarsi di situazioni che esulavano la mia disperata necessità di controllo. Nel seguire le elucubrazioni di D’Isa ho provato un senso di vertigine e ho cercato di riprendere il filo dei miei pensieri: quel senso di liberazione nel non dover pensare alle conseguenze di un’azione, l’ebrezza di rinunciare al controllo, eppure di dettare le regole di tale rinuncia. L’approccio filosofico mi è sempre mancato e oggi lo vedo bene, proprio leggendo il diario di Francesco: se vuoi abbracciare l’assurdo, lo devi prima definire e infine superare, oppure lasciarti abbracciare da lui.

Ma il primo passo è verso il concetto di esistenza, a cui io aggiungo automaticamente quello di coscienza di sé.

Esiste qualcosa. Esisto io. Esiste il dolore. Esiste il piacere. Esiste il bene. Esiste il male. Al di là del bene e del male. Esiste l’aldilà.

La coscienza di sé

Essere affetti da Alzheimer non significa dire “non ricordo più”, questo è un facile fraintendimento in cui caschiamo tutti, fino a quando l’Alzheimer non entra nelle nostre vite. La facile battuta “non riesco più a ricordarmi dove ho messo le chiavi, Alzheimer incipiente!” mi fa ancora sorridere quando la ascolto, pronunciata con vaga trascuratezza, perché ora capisco quanto sia distante dalla realtà delle cose.

Ho cominciato a riflettere sull’argomento le prime volte che, parlando di mia madre, mi veniva fatta la domanda classica “ma ti riconosce?”; una sorta di prova del nove, che serve a rassicurare chi la formula e che, una volta tornato a casa, si sentirà rassicurato/a nel sentirsi chiamare per nome dal genitore (si ricorda ancora come mi chiamo).

In realtà, una domanda del genere è la più complessa che mi possano fare: in una famiglia dove la mia figura è stata spesso quella di chi si prendeva cura degli altri e delle cose da fare, i ruoli madre/padre/figlia/fratello/sorella sono stati i primi a saltare, nella mente di mia madre. Perciò non è quello il punto.

Ho cominciato dunque a riflettere sulla condizione di mia madre e mi sono resa conto che ciò che si è perso non è la semplice memoria degli avvenimenti o delle persone, ma qualcosa di più complesso: la coscienza di sé. Negli occhi di mia madre vedo svanire la luce e mi viene subito in mente l’immagine del cero acceso nel tabernacolo di una chiesa: la sua mancanza non fa crollare l’edificio, ma lo sconsacra.

Ecco, il mio retaggio cristiano balza fuori a tradimento: questo nostro corpo lo dobbiamo trattare come un tempio (Lettera ai Corinzi 1, 3. 16-17), ma può diventare un mero guscio.

Dunque ecco cosa è l’Alzheimer, la perdita di coscienza di sé, una discesa inarrestabile lungo la quale viene meno la consapevolezza di ciò che siamo, del nostro posto perfino nello spazio (ultimamente mia madre ha difficoltà a sedersi, perché non sa più che gesti deve fare) e perciò, a maggior ragione, nel tempo.

Memoria di sé

Una prima associazione di idee mi regala l’immagine mitica di Orfeo (Joseph Campbell sarebbe, spero, fiero di me e del mio serbatoio mitologico, cui attingo a piene mani soprattutto per interpretare ciò che non capisco o che non mi piace).

Il celebre cantore firma i primi libri sacri della storia della religione greca, rivolti ai fedeli che sono chiamati ad affidarsi completamente alla nuova religione: nei testi orfici sono infatti incluse le lamine d’oro su cui è inciso il percorso dell’anima nell’Aldilà e le parole da pronunciare per poter ottenere una reincarnazione consapevole.

L’itinerario del fedele è chiaramente segnato da elementi paesaggistici, come il cipresso bianco, dalla presenza di guardie e dalle figure monumentali delle due fonti: l’acqua del ricordo (Mnemosyne) e quella dell’oblio (Lete). Il seguace di Orfeo deve prestare attenzione e bere esclusivamente per ricordare, altrimenti sarà condannato a ripetere un ciclo di vita, perdendo il grado di purificazione che aveva raggiunto. Il fine ultimo è infatti quello di superare tutte le reincarnazioni, raggiungere la completa purificazione e finalmente abbandonare definitivamente il mondo, per unirsi al coro dei beati.

Ciò che viene ricordato non è la vita precedente, ma il livello raggiunto grazie ai sacrifici compiuti in quella vita. Non il ricordo meccanico di gesti o persone, ma la coscienza di sé, quella che l’essere umano ha condiviso con Zagreus (e Phanes) e che è sopravvissuta all’annientamento dei Titani.

Tale insistenza sul ricordo mi ha sempre incuriosito, dal momento che Mnemosyne è, nel mito greco, anche il nome della divinità del Ricordo, madre delle Muse, cioè delle arti che si fondavano sulla tecnica mnemonica e nelle quali Orfeo, il cantore, era maestro. Ecco che, però, non si trattava di ricordare meccanicamente qualche testo poetico, bensì di essere presenti a se stessi, alla propria essenza di discendente del dio.

Chaos

In un capitolo del suo diario filosofico, Francesco D’Isa prende di petto la questione della concatenazione di eventi, che diventa essenziale determinare se vogliamo fornire una linea sulla quale danzare in termini di assurdo o di consequenziale. Una sua considerazione sull’indagine “a ritroso” dei rapporti di causalità mi ha fatto tornare alla mente la scena dell’origine del mondo descritta da Esiodo:

Dunque, per primo fu Chaos, e poi Gaia dall’ampio petto (…) e Tartaro nebbioso (…) poi Eros (…). Da Chaos nacquero Erebo e nera Notte.

Esiodo, Teogonia, vv 115-120

Il tondo interno della kylix di Kachrylion (510 a.C.), esposta nel Museo Archeologico di Firenze.

Le prime due vere entità sono Gaia, la terra, e Chaos – su Tartaro ci sono ancora dubbi interpretativi – cui si aggiunge Eros, ma non il simpatico fanciullo malandrino dei secoli ellenistici, bensì il cosiddetto “Eros primigenio”, aitante adolescente che volteggia sulle acque di Oceano appena create. Sulla definizione di Chaos gli studiosi glissano, fornendo etimologia (deriva dal verbo che significa “aprire”, come un chasma che inghiotte nel vuoto, un abisso, un crepaccio) al posto di definizione: forse ce lo possiamo figurare come un “buco nero” in cui tutto già esiste, ma in forma inconsistente e mescolata. Chi permette al Chaos di creare gli elementi? Secondo Aristotele e Platone proprio quell’Eros primigenio, la forza creativa assimilabile a un fuoco efestio. Orfeo riprenderà il verso esiodeo e sulle lamine verrà scritto che ogni fedele è figlio “di Gaia e di Urano stellato”, ma la forza generatrice diventerà Phanes, espressione, eccoci di nuovo, dell’esistenza in sé, più che di una forza esterna al sé.

Riprendo il filo del discorso, della causalità a ritroso e rifletto su questa concatenazione di creazioni, una reazione a catena che prende le mosse da Eros nel Chaos, e, una volta ottenuti Erebo e Notte, produce una valanga inarrestabile, cui si aggiungono Gaia con Urano.

Libero Arbitrio

Anche il capitolo sul Libero Arbitrio ha toccato corde antiche, ma ancora perfettamente risonanti: una libertà illusoria, quel tanto che basta per rassicurarci. Eppure anche io, come Francesco D’Isa, trovo più sollievo nel sentirmi parte di una trama, per quanto impalpabile e incontrollabile.

L’Assurdo

Mentre mi lasciavo trasportare dalle divagazioni suggeritemi nella lettura de “L’assurda evidenza” ho riascoltato una canzone di Battiato, “Prospettiva Nevskji” e ho trovato un ulteriore elemento di riflessione. Stando a tutte le proposte di interpretazione, alcune frasi in chiusura del testo rimandano a Gurdjieff e ai temi dei suoi scritti. Battiato preferisce sicuramente inserire frasi nelle canzoni, piuttosto che lanciarsi in disquisizioni accademiche sulle lezioni di questo maestro e quindi “l’alba dentro all’imbrunire” è interpretata da tutti – ma non ho trovato la versione di Franco Battiato in merito – come il riferimento alla rinascita (alba) dopo la morte (imbrunire).

Forse è facile vedere in Battiato (o in Gurdjieff?) un Orfeo impegnato a trattare la delicata materia della metempsicosi, io però scorgo anche una possibile accettazione dell’assurdo, che al Maestro e al suo allievo risulta evidente: la coscienza di sé vaga oltre il limite posto dalla logica dei fenomeni e riesce a sperimentare una condizione impossibile altrimenti.

Gli ultimi anni di Franco Battiato sono stati protetti dai suoi amici più cari e solo pochi sussurri hanno lasciato trapelare la condizione dell’Alzheimer, un dettaglio che mi riconduce alla considerazione iniziale: quella che noi definiamo memoria è composta da più elementi e la coscienza di sé è l’unica forma di memoria che può garantirci di superare il bene e il male.

Forse, mentre l’involucro guardava, spento, i volti non più noti, l’anziano allievo stava solo sperimentando un viaggio della coscienza di sé oltre i limiti di questo nostro mondo, a inseguire l’alba dentro l’imbrunire.

“Per un attimo il tempo si ferma e la cosa banale te la senti nel cuore, come se il prima e il dopo non esistessero più”

Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, citato a p. 16 de “L’assurda evidenza”
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Ridestare i morti

«Non esiste incantesimo che possa ridestare i morti» rispose Silente con gravità

J.K. Rowling, Harry Potter e il Calice di Fuoco
Da Odilone di Cluny a Odilon Redon

La notte del 31 ottobre si accende come il Monte Calvo dei diavoli di Moussorgsky e accoglie immagini spaventose, spesso mostruose, di chi si affaccia nel mondo dei vivi per terrorizzarli, minacciarli perfino. Quando la notte passa, il nuovo giorno è dedicato ai Santi, uomini e donne, chiamati a purificare la paura che ha macchiato il mondo.

Poi arriva il 2 novembre e la tradizione affida a un monaco di Cluny la responsabilità di aver dato un luogo alle anime dei defunti. Non quelle che cercano di terrorizzare e nemmeno le anime nobili che hanno vissuto nella Grazia, benedicendo il mondo con le loro opere miracolose. Il 2 novembre è il giorno del ricordo di tutti coloro i quali sono morti, senza distinzione, senza limitazione, senza giudizio.

Una necessità

I rituali del passaggio dalla vita alla morte sono tanti, diversificati nel mondo dalle molte credenze: chi muore deve essere adeguatamente salutato e preparato a quel che gli spetta (o lo aspetta?). Ma ciò che accomuna chi resta è l’esigenza tutta umana di ricordare chi passa. La memoria è la nostra scintilla di eternità, guai a negarcela.

Forse per questo, in un giorno imprecisato del Medioevo di Cluny, ci raccontano le cronache sacre che un giovane frate chiedesse a Odilone, celebre abate del monastero benedettino, se esistesse un giorno in cui le anime dei defunti potessero essere ricordate e magari aiutate a passare più velocemente dal Purgatorio per accedere finalmente alla Gloria di Dio.

Sant’Odilone decise che il giorno dopo Ognissanti sarebbe stato quello designato per tale incombenza: raccogliere preghiere e atti di carità e di benevolenza, magari pagare anche per qualche indulgenza, e presentare il tutto a Dio in favore delle anime purganti.

Chiesa di San Pietro a Portovenere, La Spezia

Incantesimi

E fu così che nell’XI secolo, da Cluny si diffuse – prima nei monasteri cluniacensi e poi in tutto il mondo cattolico – l’uso di associare, in sequenza, le minacce di anime inquiete, le benedizioni di anime nobili e infine gli interessi di anime povere.

Fu così che i cimiteri si riempirono di parenti e il culto dei morti divenne un impegno annuale: ecco la forzatura di una data che ferma nel tempo il culto dei morti, come se il pensiero dei defunti potesse essere limitato a ventiquattro ore all’anno.

Quale gesto può compiere il parente quando si trova dinanzi a una tomba il due di novembre? “Non esistono incantesimi che possano ridestare i morti”, perciò dovrà essere lo stanco rituale il gesto che compirà la magia: il ricordo verrà ridestato, anziché il corpo consumato.

“Perché di lor memoria sia”

Inevitabile citare Dante, il primo che diede voce alle anime del Purgatorio, una concezione elaborata compiutamente solo nel 1274 a Lione. Tutto, nel viaggio di Dante, parla della necessità del ricordo, a partire dal fatto che il fiorentino chiede a chi incontra di citare il proprio nome e raccontare la propria storia e si ripromette di non dimenticare le sofferenze e la verità di ciascuno.

Nelle Antesterie ad Atene i morti venivano ricordati a febbraio, nei giorni della celebrazione del vino nuovo: le anime dei defunti venivano immaginate aggirarsi per le strade della città e si offrivano dolci a Hermes, perché le conducesse lontano dai vivi e le convincesse a essere benevole. Nella Nekya dell’Odissea, il protagonista incontra le anime dei defunti, ma per convincerle a mostrarsi, dopo aver fatto i sacrifici di rito, promette di ricordarsi di loro una volta a Itaca. I defunti greci andavano ricordati per tenerli buoni e venivano associati ai riti di rinascita che identificavano il dio del vino.

In Moldova ho trovato tavoli e sedie allestiti in mezzo alle tombe di un cimitero e mi hanno spiegato che nei giorni della Pasqua è uso banchettare nella città dei morti. Il loro ricordo è vissuto nei giorni della Passione del Cristo e reso ancora più struggente dall’associazione con l’estremo sacrificio del figlio di Dio.

Tradizioni

Allora entriamo in questi cimiteri e ripetiamo i gesti del rito: solo così riusciremo ad attutire il dolore del nostro ricordo.

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