Fu nelle fiabe che io intuii per la prima volta la potenza delle parole, e la meraviglia delle cose, di cose come pietra, e legno, e ferro; albero ed erba; casa e fuoco; pane e vino.
J.R.R. Tolkien, Sulle fiabe, in Il Medioevo e il fantastico, Bompiani 2018, p.251
Sto leggendo per la prima volta il bellissimo saggio “Sulle fiabe“, una conferenza tenuta da Tolkien nel 1939 e pubblicata nel 1947. Si tratta ormai di un classico e ammetto di essere arrivata abbastanza tardi a leggerlo, ma – come si dice – meglio tardi che mai!
Sono molti gli spunti di riflessione offerti dalle parole di Tolkien, soprattutto per chi, come me, da circa otto anni sta cercando di trovare un modo efficace di introdurre giovani studenti statunitensi allo studio del mito classico. L’analisi sulla genesi delle fiabe, ma soprattutto sul rapporto tra le fiabe e il mondo dei bambini e quello degli adulti è brillante e illumina numerosi aspetti che ritrovo nelle mie lezioni. Perché i ragazzi che entrano nelle mie aule si aspettano di ascoltare storie di dèi, eroi, mostri, magie o super poteri e ben presto si rendono conto del fatto che dovranno studiare non tanto nomi astrusi, ma temi. Non dovranno imparare storie buffe e poco credibili (e quindi, dal loro punto di vista, innocue o addirittura ridicole) ma dovranno cercare di capire il motivo che ha portato all’invenzione di quelle storie. Non potranno tenersi lontani dai creatori del mito, ma dovranno confrontarsi con loro, fino a ritrovare loro stessi in quell’immenso specchio deformato che è lo studio dell’antropologia.
La verità ci fa male, lo so
Una delle prime “lezioni” riguarda un aspetto essenziale del mio corso, vale a dire il concetto di vero e verosimile applicato ai miti classici. Come i bambini cui accenna Tolkien nel suo saggio, gli studenti sono interessati al grado di verità dei miti, ma la loro domanda non è “è vero che Zeus era il re degli dèi?”, quanto “è vero che i Greci credevano che Zeus fosse il re degli dèi?”. E proprio come Tolkien suggerisce, io sposto l’attenzione dei miei lettori: non chiedetevi se è vero o se chi lo ha ideato pensasse fosse vero, chiedetevi invece perché quello specifico mito è stato creato, che cosa ha condizionato la ideazione di un particolare racconto.
La domanda serve a stabilire una sorta di regola di base: qualunque racconto io stia per leggere, non è vero e quindi non può farmi male, ma nel momento in cui lo leggerò, deciderò se “sospendere l’incredulità” per potermi immergere completamente nella realtà che mi viene proposta.
Recovery
Nella prefazione all’edizione Bompiani di “Il Medioevo fantastico”, Gianfranco de Turris ci informa che, rispetto all’edizione del 1976, la traduzione italiana ha operato alcune scelte diverse. Una di queste riguarda i termini che definiscono i motivi per cui, secondo Tolkien, adulti e bambini ricorrono alle fiabe: per ottenere Fantasy, Recovery, Escape, Consolation. Il termine recovery era stato inizialmente reso come “ristoro”, perché la parola significa ristoro, guarigione, ritrovamento, reintegro, ripristino. Ma nella edizione 2018 è stato preferito renderla come “riscoperta”, intendendo in tal modo suggerire l’insieme delle accezioni summenzionate.
Io, però, vorrei offrire una mia esperienza personale e promuovere la traduzione di recovery, in questo contesto fiabesco, con “guarigione”. Per sei anni, infatti, ho scelto di utilizzare fiabe vecchie e nuove per aiutare mia madre nella sua condizione di paziente di Alzheimer. Non solo ho trovato le illustrazioni molto gradite e gradevoli, ma i testi sono spesso stati un modo per lei di continuare a leggere ad alta voce, fino a quando la malattia glielo ha permesso, e quindi di sentirsi abile pur in un’attività semplice. Oppure, una volta abbandonata la possibilità di parlare, di seguire con interesse una storia breve e ricca di avvenimenti: colpi di scena, eventi buffi, personaggi simpatici, situazioni complicate, ma risolvibili.
Questo interesse l’ho sempre interpretato come la logica conseguenza del fatto che l’Alzheimer ti spoglia completamente di molte abilità e ti fa tornare a uno stato primitivo, che noi care-giver confondiamo con uno stato infantile.
E infine vi è il desiderio più antico e profondo, quella della Grande Evasione, l’Evasione dalla Morte
J.R.R. Tolkien, Sulle fiabe, in Il Medioevo e il fantastico, Bompiani 2018, p.259
Questa riflessione di Tolkien mi ha però portato a pensare che, forse, quella signora di quasi ottant’anni, che non mi aveva mai letto fiabe quando ero bambina, stava nutrendo sia la sua parte infantile che quella adulta. Proprio quest’ultima riemergeva spesso e si rendeva conto, anche solo per un istante, della condizione in cui si stava trovando. Ecco, forse proprio quell’adulta mi chiedeva con gli occhi di “guarire”, “salvarsi”, “scappare” e leggere le fiabe che avevano ormai definito la nostra quasi quotidiana routine.
Ricerca
Lo studio analitico delle fiabe costituisce una preparazione (…) al loro godimento o alla loro creazione (…)
J.R.R. Tolkien, Sulle fiabe, in Il Medioevo e il fantastico, Bompiani 2018, p.247
E così, più mi immergo nella intricata matasse delle genealogie degli dèi classici e delle teorie interpretative, più mi impegno nello scegliere la fiaba o la favola che possa piacere di più a mia madre (ormai non più, ma fino a poco tempo fa è stata una ricerca impegnativa e di grandi soddisfazioni), più cresce in me la voglia di entrare sempre di più nel mondo delle fiabe e lasciarmi incantare dai mille volti degli eroi e delle eroine oppure dalla suggestione di tracciare la lunga vita dei protagonisti dei racconti medioevali che animano l’infanzia della nostra generazione. Una ricerca sulle ninfe del mondo greco mi ha portato a ritrovarle lungo le sponde del Reno e perfino nelle sale del Walhalla!
Le immagini che ho usato per queste mie riflessioni sono tratte da un viaggio fatto pochi mesi fa sulle tracce dei Fratelli Grimm e delle storie più popolari tra quelle da loro raccolte e pubblicate a varie riprese nell’Ottocento. Ho visitato sia Marburg che Alfeld: nella prima i fratelli hanno cominciato a studiare legge per poi decidere di diventare filologi e narratori di storie del folklore tedesco; la seconda pare invece essere stata da loro visitata quando cominciarono a viaggiare per raccogliere le storie popolari.
La cittadina di Marburg ha deciso di seminare in giro per le strade e presso il castello oppure vicino ad antiche fonti, una serie di installazioni che riproducono alcuni dettagli delle storie più note, creando un vero e proprio percorso che invita il turista ad aguzzare la vista e a ripercorrere le trame delle fiabe.
Qualunque fine, basta che sia lieto
Ci sarebbero ancora tante cose da dire sulle fiabe e sui racconti, vecchi e nuovi. Quel senso di evasione e di catarsi a cui fa riferimento Tolkien è ancora molto forte e presente nei lettori moderni di fiabe. Ricordo uno studente, anni fa, che alla domanda “come mai hai scelto questo corso” rispose che sperava di “escape” dalle brutture del mondo contemporaneo e forse anche da qualche pesantezza personale. Una delle mie lezioni più care è quella che riguarda Delfi e il suo oracolo: adoro analizzare il mito di Edipo e spogliarlo degli aspetti morbosi per riconsegnarlo alla storia e alle istanze delle grandi famiglie aristocratiche che controllavano le trances della Pizia. In quel caso mi sembra di poter offrire ai ragazzi un modo per proteggersi e scegliere se lasciarsi sedurre dagli aspetti più macabri degli antichi miti oppure prenderne il controllo attraverso l’interpretazione.
Forse è questo il segreto del fascino che le fiabe esercitano sugli adulti: mentre le leggiamo possiamo farci coinvolgere, ma la nostra mente sa come raggiungere l’uscita di sicurezza, per così dire. I bambini, in effetti, hanno una qualità che si va perdendo negli anni della crescita: nel momento in cui cominciano a leggere una fiaba hanno già scelto e rispettano il proprio ruolo fino alla fine (se la fiaba è scritta bene, si intende).
Tutto può accadere nel territorio instabile della fiaba, perché le regole sono chiare fin dall’inizio, anche nelle trame più contorte. Mi ricordo che da piccola ero rimasta perplessa dalla storia di Alice nel Paese delle Meraviglie: prima di guardare la versione disneyana avevo letto una versione ridotta del racconto e non mi era piaciuto, mi creava un senso sottile di disagio. Tolkien nella sua conferenza spiega che Alice non è una fiaba, ma un sogno. E in quanto tale risponde a regole diverse, ma questa sua natura è lasciata volontariamente ambigua dall’autore e per questo gli effetti possono essere stranianti anche sul bambino.
Uno dei fraintendimenti dell’Alzheimer è che questa malattia “fa dimenticare”, perciò sembra quasi banale dire che a mia madre ho letto più volte le stesse fiabe, in alcuni casi anche due volte di seguito. Ma non succede lo stesso anche con i bambini? Non è prassi quasi normale che i bambini e le bambine a un certo punto chiedano con insistenza di ascoltare lo stesso racconto (che sanno a memoria) o di vedere lo stesso cartone animato? Questa routine, questa reiterazione ha come effetto principale quello di rassicurare, da tutti i punti di vista. Nel bambino si aggiunge probabilmente anche una sorta di esercizio di apprendimento, ma qui si entra in un ambito affatto diverso.
La fiaba e la favola ci permettono di vivere e rivivere emozioni in un contesto controllato e controllabile, eppure, durante lo svolgimento del racconto, ci lasciamo dondolare dal trapezio più alto, illudendoci di compiere evoluzioni sempre più rischiose.
Non c’è una fine in questa mia riflessione, piuttosto un invito a riprendere le fiabe e le favole a voi più care e a leggerle a tutti, grandi e piccoli. Leggerle a voce alta, come facevo io con le Fiabe italiane di Calvino proposte a mio fratello quando aveva 8 anni e io 12, oppure come ho fatto questa estate con la raccolta dei Fratelli Grimm al mio compagno di viaggio.
Non c’è un’età per smettere di leggere fiabe.