La storia siamo (ancora) noi.

Ormai per me non esiste più ottobre senza il viaggio a Licodia Eubea, splendido paesino a un’ora da Catania, astro che brilla in una costellazione di borghi dal passato presente e vibrante (solo per citarne un paio: Vizzini e Grammichele, per i quali rimando a una serie di articoli che scrissi nella “discesa” del 2017).

La kermesse di Lorenzo Daniele, Alessandra Cilio e Mauro Italia ha cambiato veste (non più Rassegna ma Festival) ma non sostanza e anche quest’anno è un’occasione stimolante, che porta incontri, scambi e progetti, ma soprattutto belle emozioni e momenti di simpatica euforia.

Ogni anno mi riprometto di scrivere lunghi articoli, di sviluppare i collegamenti che mi sono venuti in mente guardando i film, ma è davvero dura fermarsi e riordinare le idee durante i giorni del Festival, e l’andare via equivale per me a essere risucchiata nel vortice degli impegni, quelli da cui per qualche giorno mi ero riuscita ad allontanare. Eppure, forse questa volta riesco a elaborare un breve post su un aspetto che mi sta affascinando particolarmente.

Tema

Il bello di iniziative di questo tipo è la varietà di offerta di film che viene proposta: i titoli in lista possono soddisfare gusti anche molto diversi e l’unico tema che hanno in comune è il rapporto con il passato, solitamente un passato archeologico. Ma la direzione artistica qui a Licodia cerca di costruire la scaletta delle proposte seguendo un filo conduttore, così che gli argomenti si svolgono dinanzi allo spettatore secondo una logica e formando un quadro coerente.

I film di quest’anno a Licodia Eubea presentano spesso la relazione tra l’attività scientifica degli archeologi e la popolazione che risiede nel territorio interessato dalla ricerca.

Svolgimento

Negli ultimi anni si è fatta più pressante la necessità, da parte degli addetti ai lavori, di coinvolgere la popolazione nelle ricerche, evocando una “archeologia pubblica” che viene spesso declinata in modi estremamente diversi, ma che in fin dei conti chiede semplicemente che si metta più attenzione nel rapporto tra chi cerca la storia e le persone che quella ricerca dovrebbero usufruire.

Ebbene, nei film in concorso ho trovato spesso l’intenzione da parte del regista di ascoltare le voci dei non addetti ai lavori o di interrogarsi sulla trasformazione del luogo nei volti e nelle abitudini dei suoi abitanti.

Il documentario “Gli abitanti di Gobeklitepe” di Sedat Benek, per esempio, prende uno dei siti archeologici più importanti e più discussi, la cui datazione porta a rivedere la seriazione cronologica addirittura del Neolitico, e lo dà in pasto agli abitanti della zona. In un continuo andirivieni tra sito e paese annesso, il regista ci spiega, attraverso le voci delle persone del luogo, che Gobeklitepe è sempre stato considerato sacro, fino a inventarsi una formula di giuramento su quelle rovine (lo giuro su Gobekli Tepe).

Uno degli intervistati spiega che sua nonna organizzava ogni anno un vero e proprio rituale di purificazione e propiziatorio di un buon raccolto: tra il 20 e il 22 marzo tutta la famiglia raggiungeva la zona, che ancora non era stata indagata, e la nonna benediva le pecore. Tutto, in questo rituale, rimanda a gesti antichissimi, alla magia dell’equinozio primaverile, al ruolo fondante del sistema famigliare, alla vita dei campi, che dal passaggio neolitico arriva dritta fino a noi. In fondo, una volta scoperto il valore storico di Gobeklitepe, gli studiosi lo hanno interpretato come luogo di riunione annuale di una certa comunità.

Sedat Benek ha però cercato anche di portare a galla il malcontento della gestione amministrativa degli scavi da parte del governo centrale: gli intervistati garantiscono di essere talmente orgogliosi del loro passato, da non fidarsi a lasciarlo in mani straniere (il direttore degli scavi è stato il tedesco Schmidt per almeno 20 anni). Così, quando lo Stato interviene per espropriare, i proprietari dei terreni cercano quanto meno una buona fuoriuscita, ma vengono sistematicamente delusi.

Infine, la frase forse più significativa di questa burrascosa relazione tra abitanti e archeologia, la pronuncia un signore che ricorda la scoperta di una statua itifallica durante i lavori di aratura di un campo: cercando di capire come gestirla e dove portarla, lui e il padre ricevono il suggerimento di un amico: “è inutile. Portatelo in un museo e forse là potrà servire a qualcosa”. Evito di aggiungere commenti a una frase che spiega da sola tutto un mondo.

I volti

Immagine tratta dall’articolo di Classicult

Due film, invece, mi hanno colpito perché hanno coinvolto gli abitanti di due siti ben distinti. Il primo film Krošnja, ha per titolo il termine tecnico botanico in lingua serba che indica la parte di un albero che emerge dal terreno. In questo caso, a emergere nei boschi della zona tra i fiumi Ibar e Drina, sono stele funerarie i cui volti sembrano parenti di Giustiniano e della sua corte: visi triangolari, occhi sgranati, labbra sottili e rigide. Ognuno di loro è rappresentato con un oggetto caratterizzante (l’uomo con l’ombrello chiuso sembra la risposta serba al sogno magrittiano) e le lapidi spiegano la vita e la morte di queste persone. La scelta di ritrarli direttamente nel bosco e non in un museo è proprio la chiave di lettura che mi ha permesso di riconoscere direttamente le persone, senza filtri.

Infine Zakros, un lungo documentario sugli scavi cretesi diretti da Nikolaos Platon, che combina insieme filmati degli anni ’80 con scene moderne e che a un certo punto (il filo delle concatenazioni è un poco difficile da seguire e presenta, secondo me, diversi nodi che interrompono la narrazione) fa riferimento alla presenza di Lidio Cipriani e alle sue foto. Il maggiore Cipriani, nel 1942, approdò a Creta e riprese i lavori che da anni portava avanti sullo studio delle razze (il fantomatico Manifesto della Razza fu elaborato anche partendo dalle sue teorie): le foto di Cipriani ritraggono volti per poterli mettere in relazione a teorie su evoluzioni e affinità e infatti confluirono in un volume, pubblicato a Firenze nel 1943, dal titolo “Creta e l’origine mediterranea della civiltà”.

Ma riproponendo le foto di Cipriani, il regista cerca un possibile collegamento con gli abitanti moderni di Creta, in uno sforzo titanico di cambiare le premesse del lavoro del fascista Cirpiani e di sfruttare quello studio per poter ritrovare una continuità tra i residenti del passato e del presente.

La terra del ritorno

I carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale sono tra i protagonisti del film

Infine c’è “Askòs. Il canto della sirena“, il film che ha vinto il premio AudioVisiva, della giuria di qualità, e sul quale scriverò un’analisi condita di opinioni molto personali. Ebbene, il vaso del titolo, l’askòs, arriva sullo schermo solo dopo almeno 20 minuti: il vero fulcro della storia sono gli uomini che, a vario titolo, hanno avuto a che fare con esso e soprattutto l’intera popolazione, il territorio della gente. Una gente che ha visto la propria terra “bucherellata” che si è illusa di poter ricavare soldi da ciò che veniva alla luce, che si è sentita defraudata quando è emersa la questione del furto del vaso e che oggi lotta per ritrovare una identità, proprio attraverso gli antichi reperti.

Conclusione (?)

L’archeologia che abbiamo visto sullo schermo di questa XIII edizione, spesso e volentieri, è stata quella, se non pubblica, del pubblico: se oggi si parla tanto di divulgazione della cultura, è perché il divario tra scavo/studio e la popolazione che vive a contatto con ciò che deve essere scavato/studiato è davvero un ostacolo al progresso della scienza. E perché oggi più di prima riconosciamo all’archeologia il ruolo di sanare il divario, le ferite del tempo.

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In compagnia

Ci sono dei brani musicali che entrano nei precordi di questo mio vecchio mondo interiore e raggiungono immagini talmente lontane da balzarmi agli occhi già incorniciate. La routine delle nostre domeniche in via Crispi era scandita dagli umori di mia madre, che solitamente era sempre in vena di qualche brano chopeniano. Mazurke, ballate, soprattutto queste ultime.

Riprendo l’ascolto della amata Radio Tre dopo alcuni mesi di distacco e mi imbatto in una trasmissione che propone dei taccuini personali di varie voci di Radio Tre. È la volta di Giovanna Natalini, la quale comincia con un Vivaldi raffinato e poi propone Arturo Benedetti Michelangeli e Chopin:

Io mi fermo e ascolto e nel giro di poche battute ritrovo il nostro salotto e vedo le spalle di mia mamma incurvarsi sugli accordi, torno a seguire il moto che sembra perpetuo delle semicrome, ricordo perfettamente le pause, le accelerate. Ed è ancora domenica e io resto sul divano ad ascoltare mia madre e lei diventa Chopin, no anzi è lei stessa tastiera e pianista, lei stessa spartito e interprete, per alcuni bellissimi momenti non esiste nient’altro, e ciò che esiste è solo mio.

Un viaggio

Comincio così, in una domenica densa di ricordi che, come martelletti sottili battono sui precordi, come dicevamo, il racconto di un viaggio fatto inseguendo fiabe e boschi incantati e che mi ha portato in un mondo medievale che non mi aspettavo.

La Bretagna ha sempre avuto un posto speciale nella mia lista di luoghi da visitare e il fascino della meta è aumentato man mano che mi sono immersa nella lettura e poi nello studio delle leggende su Melusina, la Dama del Lago, il ciclo bretone e La Morte d’Arthur, Broceliande.

La foresta

Broceliande è stata infatti la prima tappa e forse l’unica veramente legata alle leggende che volevo inseguire: il nome moderno è Paimpont, ma per noi visitatori, che siamo la forma un poco più snob dei seguaci delle saghe tolkeniane, il nome Broceliande resta impresso sulle cartine e sui tanti gadget:

Che tu sia un camminatore o che voglia affittare una bicicletta oppure senza abbandonare la tua macchina o il tuo camper, i sentieri e le strade della foresta ti accompagnano nei luoghi che la tradizione ha legato indissolubilmente ai protagonisti dei racconti arturiani: Mago Merlino, la chiesa del Graal, la saggezza druidica, l’acqua che garantisce vita eterna e che è custodita da donne bellissime.

Saghe del bosco

Le vicende di Merlino e di Re Artù sono ovviamente legate a Camelot e ai luoghi che oggi pare poter riconoscere nei castelli della Cornovaglia o in alcuni laghi del Galles, ma il legame con l’immaginario francese è storico: Brittany è il nome della regione da cui provengono alcuni dei cavalieri, Broceliande parrebbe essere il luogo di origine di Viviane, alla Cornovaglia inglese fa da contraltare la Cornouaille bretone, e così via. Le imprese dei cavalieri alla ricerca del Graal hanno lasciato tracce nelle numerose chiese che tra il XII e il XIII secolo sono sorte dall’una e dall’altra parte del Canale e che, questo è poi il punto che mi interessa di più, hanno riacquistato visibilità e fama nel corso del Novecento, allorché lo studio delle leggende cavalleresche proiettava la propria ombra sull’immaginario non solo di professori di storia e folklore, ma anche di appassionati di racconti di imprese.

Paladini

Perciò mio fratello ha deciso di sfidare a duello ogni barone, il cui fiore è radunato qui, per dimostrare il suo valore: che sia pagano o battezzato, lo venga a incontrare fuori dalla città, nel verde prato alla Fonte del Pino, dove si dice che ci sia il Pietrone [la tomba] di Merlino.

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Per tanto ha il mio fratel deliberato,
Per sua virtute quivi dimostrare,
Dove il fior de’ baroni è radunato,
Ad uno ad un per giostra contrastare:
O voglia esser pagano o baptizato,
Fuor de la terra lo venga a trovare,
Nel verde prato alla Fonte del Pino,
Dove se dice al Petron di Merlino.

Matteo Maria Boiardo, L’Orlando Innamorato. (1.1.27)

Il “pietrone di Merlino”, che un pannello poco distante ci dice essere un antico dolmen, datato in età neolitica, è il luogo che la tradizione locale ha associato al druido consigliere di Artù. La storia di Merlino nasce in Scozia e attraversa numerose tradizioni celtiche per approdare a Broceliande, dove, stando al Lancelot-Graal o Livre du Graal, opera del XIII secolo, Viviane imprigiona Merlino per sempre. Quando, nel 1483, Boiardo descrive il duello per la mano di Angelica, appare inevitabile ambientarlo in un luogo estremamente significativo per cavalieri senza macchia e senza paura: proprio la tomba dell’antico consigliere del grande re Artù (come non pensare al ruolo delle tombe degli antenati nella gestione degli affari dei guerrieri come ci viene proposto da Omero presso la tomba di Ilo, Iliade X, 414),

Profeta, ama te stesso

Concludo questa prima tappa del viaggio bretone con una riflessione proprio sulla morte di Merlino. Dicevamo che le versioni sulla sua tomba sono molteplici: Merlino è imprigionato in una grotta, in un albero, sotto una pietra… Ma resta invariata la dinamica tra lui e Viviane (o Nimiane o Nimue), per cui la bella allieva, di cui l’anziano mago è innamorato, gli gioca un brutto tiro e lo convince a mostrarle fino a che punto può la sua magia, lo convince a imprigionarsi. Merlino è innanzitutto un veggente, come può restare ingannato dalla giovane apprendista? Beh, forse il personaggio di Merlino è molto più profondo di quello che ci hanno abituato a pensare: le primissime testimonianze, dai lavori di Geoffrey di Monmouth (XII secolo) alle versioni gallesi o scozzesi del secolo successivo, ci parlano di un “matto”, Merlino bardo impazzito dalle visioni tragiche della guerra. Un uomo sensibile agli orrori della vita, che a poco a poco incarna il ruolo del consigliere saggio e spregiudicato, del figlio di Satana, salvato dal battesimo, ma che mantiene nella sua natura la necessità di stupirsi della vita e delle persone, di cadere perdutamente innamorato. Perciò, sì, Merlino sa che morirà, che resterà imprigionato per sempre, ma non può negare nulla alla sua amata, nemmeno la propria morte.

E noi, che siamo un po’ romantici come Merlino, preferiamo credere, anziché alla roccia che lo schiaccia, a una versione riportata nel Livre du Graal, secondo la quale Nimue costringe Merlino a risiedere in una torre di cristallo invisibile all’occhio umano: dall’esterno si vede solo una nebbia, Merlino invece resta nella torre e attende Nimue, che lo visita ogni notte…

L’apprendista cresce

Curiosamente, Giovanna Natalini propone poi un brano che ha segnato, per me, il taglio del cordone ombelicale di mia madre (per quel che riguarda le scelte musicali), perché il concerto per violino e orchestra di Beethoven è stata la prima scelta autonoma in fatto di musica: non lo avevo ascoltato in casa, ma in una pubblicità che promuoveva l’ultima incisione di Uto Ughi. Questo concerto ha parlato non più a mia madre, ma a me direttamente, e così sono andata a “La Fenice” a cercarlo e comprarlo.

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Punti di vista

Paolo Veronese, Crocifissione, 1582 circa (oggi al Louvre)

La prima volta che sono entrata al Louvre è stato, mi sembra, nel 2011. Accompagnavo un gruppo di ragazzini statunitensi e li lasciai nelle capaci mani della guida e degli altri miei colleghi, mentre io mi perdevo nei meandri del piano terra, tra i miei amati antichi. Decisi, tuttavia, che dovevo pagare il pegno di una capatina davanti alla Monnalisa e quindi mi intrufolai e raggiunsi la sala 711 al primo piano.

Mentre sorridevo nel vedere l’accalcarsi di gente davanti al piccolo quadro, schermato dal vetro, restai affascinata dalle “Nozze di Cana”, di Paolo Veronese, che campeggia sulla parete opposta, quasi 10 metri di lunghezza; il quadro che una signora indiana stava descrivendo alla figlia come “L’ultima cena”, per cui io mi sentii in dovere di correggerla…

Ma prima di lasciare la sala restai colpita da un quadro sulla parete destra (guardando la Gioconda), un altro lavoro di Veronese, una crocifissione. Quello che mi colpì fu la composizione della scena: non le tre croci frontali, con la Maddalena, Giovanni e Maria addolorati ai piedi di quella centrale, non angeli svolazzanti disperati, non legionari con spugne imbevute di aceto oppure sghignazzanti che si giocano ai dadi la tunica.

No, Veronese mette le croci di scorcio, sulla sinistra.

Questioni di prospettiva

Io non sono una storica dell’arte e così ho provato a cercare commenti ben più professionali che potessero spiegarmi la scelta del pittore. Ho trovato alcune schede del dipinto, che elencano gli altri casi in cui Veronese (ma prima di lui, per esempio, Tintoretto) decide di abbandonare la visione frontale delle croci. Ciò che desta ammirazione e suggerisce approfondimento è la composizione delle persone ai piedi delle croci: la figura di Maria svenuta riprende un preciso topos letterario e iconografico.

Si viene a creare una sorta di piramide tra il vertice della croce del Nazareno, identificata dal cartiglio con INRI, e la Madonna svenuta a terra (vedi a sinistra)

La stessa disposizione si può trovare in un altro dipinto, di maggiori dimensioni, dove addirittura le tre croci sono un dettaglio, il Golgota non è che un evento che accade mentre la scena principale si svolge al centro del dipinto (vedi sotto)

Ma non sono riuscita a trovare un commento che esprimesse il mio stato d’animo, ciò che ho provato nel guardare il quadro la prima volta.

Peeping Stefi

Abituata alle crocifissioni frontali, figlie della tradizione da icona che ti propone già la chiave di lettura e ti chiede solo di credere, obbedire e rendere omaggio, la composizione di Veronese mi ha spiazzato.

Mi è sembrato di imbattermi nella scena quasi per caso, di entrare nello spazio della crocifissione da una strada laterale, come se mi fossi persa e, all’improvviso, mi trovassi dinanzi al momento più importante di una religione: il momento del tra-passo, del dio che muore e sperimenta in tutto e per tutto l’essere umano.

Il quadro di Paolo Veronese mi ha colpito nel profondo, proprio per quel suo chiederci di entrare nella scena in punta di piedi: una madre sta soffrendo in maniera indicibile, un uomo sta morendo, un dio si sta sacrificando, puoi non crederci, se non vuoi, ma tutto ciò sta accadendo “nonostante te”, “nonostante la tua fede”. Perciò abbi rispetto e avvicinati piano.

Nessuno ti guarda, nessuno si interessa a te, sei tu che devi farti carico della responsabilità del fedele e comprendere che, se ti farai più vicino, diventerai un martire, un testimone.

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Qui ad Atene noi facciamo così

Cosa è accaduto ai marmi del Partenone, perché sono oggi a Londra, perché sarebbe opportuno farli tornare ad Atene e cosa sta decidendo il British Museum.

Qui, ad Atene, noi facciamo così: nel 1982 decidiamo di chiedere ufficialmente al governo inglese di rimpatriare i marmi che Thomas Bruce, il settimo Conte di Elgin sottrasse all’Acropoli tra il 1801 e il 1808. Lord Elgin era ambasciatore inglese presso Costantinopoli e chiese dapprima il permesso di fare dei calchi di alcune delle statue dei frontoni e delle metope, ma alla fine riuscì a smantellare le statue ed allestire ben due navi. Il governo inglese acquisì questi marmi, sulla base del resoconto dell’ambasciatore, il quale assicurava che il Sultano gli aveva permesso di portare via dall’Acropoli ciò che voleva.

E scegliamo, come nostra portavoce, l’attrice simbolo di una Grecia moderna, protagonista sul grande schermo, volto che sembra una maschera tragica, ma dal sorriso contagioso. Melina Mercouri diviene ambasciatrice di un ideale, che sembra rivoluzionare non solo il mondo della cultura europea, ma, più in generale, il rapporto di forze tra colonizzatori e colonizzati.

Qui, ad Atene, noi facciamo così: pensiamo che l’Acropoli sia un simbolo vivo, forse l’anima vera della città. Per questo arriviamo a minacciarne l’integrità, per combattere contro un regime fascista che sta uccidendo la libertà dei suoi cittadini. L’Acropoli è un luogo di storia e per la storia, è la tragedia di Egeo, il sacrificio di Aglauro, l’incendio dei Persiani, la fossa in cui seppellire le statue consacrate, la cannonata di Morosini, la dissacrazione ottomana, lo scempio inglese.

Quella rocca resiste ai millenni e affonda sempre di più le sue radici, raggiungendo il centro della terra o anche solo quella fonte di acqua salata che ricorda al mondo la gara tra Atena e Poseidone.

Veduta dall’alto del Museo dell’Acropoli, incastonato nel quartiere di Makrigianni. L’ultimo piano è in linea con il Partenone sull’Acropoli. (Foto: https://www.parthenonuk.com/the-case-for-the-return)

Qui, ad Atene, noi facciamo così: smantelliamo un museo storico, ma desueto, e ne costruiamo uno alle pendici dell’Acropoli. Lo facciamo in mezzo a centinaia di polemiche, distruggendo edifici neoclassici, calandolo nel mezzo di un quartiere tradizionale come un monolite spaziale, ma creando una realtà museale che il mondo ci invidia. Il museo aspetta i suoi marmi, mentre all’ultimo piano le pareti finestrate aprono un dialogo diretto tra la sala e il Partenone e i calchi dei frammenti inglesi rimarcano la ferita aperta, l’attesa struggente del rimpatrio.

Qui, ad Atene, noi facciamo così: promuoviamo la nascita di decine di comitati, sparsi per il mondo, e sensibilizziamo rispetto a un problema che non è solo legale, non solo storico, non solo museologico, non solo artistico, non solo culturale, non solo emotivo, ma tutti questi aspetti insieme. Non parliamo di restituzione, perché non si tratta di restituire il mal-tolto, ma parliamo di riunificazione, perché ciò che è accaduto con l’azione di Lord Elgin è stato uno strappo, che va ricucito.

Riunificare, rendere meglio fruibile una realtà che ha senso solo nel suo contesto di origine, altrimenti è uno dei tanti trofei, una testa di leone/elefante/tigre/cervo che guarda con occhi spenti da una parete bianca: morte che evoca vita, gloria in potenza a beneficio di pochi, che si credono più vivi. Nel 2010 l’allora direttore del British Museum pubblicò un libro di grande successo: “La storia del mondo in 100 oggetti”. Si trattava di ribadire il concetto su cui era stata fondata l’idea stessa del British Museum (e non solo di questa istituzione, ovviamente): il potere dell’impero che colonizza e diffonde cultura e civiltà viene riassunto ed esaltato da oggetti raccolti in ogni dove, attraverso i quali è possibile riassumere la storia del mondo. Il visitatore del British Museum può osservare il mondo nelle sale del museo e tra i tanti pezzi si trova anche una metopa del Partenone.

n.27 dei 100 oggetti

Ma forse è proprio questo il problema, caro British Museum: tu puoi raccontarti e raccontare che la tua collezione simboleggia il cammino della civiltà nel mondo, ma quella metopa, da sola, non racconta niente altro che l’avidità di una rapina ben orchestrata. Quell’unico pezzo, staccato dai suoi naturali compagni, non è stato salvato dall’oblio, bensì ne è stata corrotta la memoria, mutilata nel suo svolgersi insieme agli altri elementi della trabeazione. Un racconto interrotto, ecco cosa hai ottenuto. Ebbene, è tempo che il racconto torni a compiersi, che le decisioni giuste vengano finalmente prese e non solo ipotizzate, che le vicende storiche diventino la cornice preziosa di una risoluzione auspicata da tempo e, a suo modo, innovativa.

Qui, ad Atene, noi facciamo così: accogliamo volentieri un piede da Palermo e alcuni frammenti da Roma, perché sono vestigia di un modo di allestire i musei che oggi più che mai offende studiosi, appassionati e semplici curiosi. Oggi sappiamo che qualunque frammento è degno di interesse e che il contesto è il migliore allestimento, in ogni mostra o percorso museale. Per questo il contesto ateniese richiama a sé anche i frammenti più piccoli.

Ecco come si presentava il frammento nelle sale del
Museo Archeologico Regionale “Antonino Salinas”

L’Italia ha già sperimentato l’emozione di vedersi restituire oggetti finiti illecitamente in altri musei, adottando una soluzione fondata sullo “scambio”: l’oggetto sottratto viene restituito a legittimo proprietario, che in cambio presta qualcosa della propria collezione al museo straniero che aveva incautamente acquistato l’oggetto. Lo stesso viene proposto ora per mantenere amichevoli i rapporti tra Atene e Londra.

Elginism

Negli ultimi mesi sembra infatti che il dialogo tra Atene e Londra si sia intensificato e soprattutto si sia orientato verso proposte concrete. Il profilo Twitter @elginism aggiorna sugli ultimi sviluppi.

Qui ad Atene noi facciamo così

Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni

ateniese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la fiducia in se stesso,

la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la

nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero

…ma gli chiediamo rispetto

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