La storia siamo (ancora) noi.

Ormai per me non esiste più ottobre senza il viaggio a Licodia Eubea, splendido paesino a un’ora da Catania, astro che brilla in una costellazione di borghi dal passato presente e vibrante (solo per citarne un paio: Vizzini e Grammichele, per i quali rimando a una serie di articoli che scrissi nella “discesa” del 2017).

La kermesse di Lorenzo Daniele, Alessandra Cilio e Mauro Italia ha cambiato veste (non più Rassegna ma Festival) ma non sostanza e anche quest’anno è un’occasione stimolante, che porta incontri, scambi e progetti, ma soprattutto belle emozioni e momenti di simpatica euforia.

Ogni anno mi riprometto di scrivere lunghi articoli, di sviluppare i collegamenti che mi sono venuti in mente guardando i film, ma è davvero dura fermarsi e riordinare le idee durante i giorni del Festival, e l’andare via equivale per me a essere risucchiata nel vortice degli impegni, quelli da cui per qualche giorno mi ero riuscita ad allontanare. Eppure, forse questa volta riesco a elaborare un breve post su un aspetto che mi sta affascinando particolarmente.

Tema

Il bello di iniziative di questo tipo è la varietà di offerta di film che viene proposta: i titoli in lista possono soddisfare gusti anche molto diversi e l’unico tema che hanno in comune è il rapporto con il passato, solitamente un passato archeologico. Ma la direzione artistica qui a Licodia cerca di costruire la scaletta delle proposte seguendo un filo conduttore, così che gli argomenti si svolgono dinanzi allo spettatore secondo una logica e formando un quadro coerente.

I film di quest’anno a Licodia Eubea presentano spesso la relazione tra l’attività scientifica degli archeologi e la popolazione che risiede nel territorio interessato dalla ricerca.

Svolgimento

Negli ultimi anni si è fatta più pressante la necessità, da parte degli addetti ai lavori, di coinvolgere la popolazione nelle ricerche, evocando una “archeologia pubblica” che viene spesso declinata in modi estremamente diversi, ma che in fin dei conti chiede semplicemente che si metta più attenzione nel rapporto tra chi cerca la storia e le persone che quella ricerca dovrebbero usufruire.

Ebbene, nei film in concorso ho trovato spesso l’intenzione da parte del regista di ascoltare le voci dei non addetti ai lavori o di interrogarsi sulla trasformazione del luogo nei volti e nelle abitudini dei suoi abitanti.

Il documentario “Gli abitanti di Gobeklitepe” di Sedat Benek, per esempio, prende uno dei siti archeologici più importanti e più discussi, la cui datazione porta a rivedere la seriazione cronologica addirittura del Neolitico, e lo dà in pasto agli abitanti della zona. In un continuo andirivieni tra sito e paese annesso, il regista ci spiega, attraverso le voci delle persone del luogo, che Gobeklitepe è sempre stato considerato sacro, fino a inventarsi una formula di giuramento su quelle rovine (lo giuro su Gobekli Tepe).

Uno degli intervistati spiega che sua nonna organizzava ogni anno un vero e proprio rituale di purificazione e propiziatorio di un buon raccolto: tra il 20 e il 22 marzo tutta la famiglia raggiungeva la zona, che ancora non era stata indagata, e la nonna benediva le pecore. Tutto, in questo rituale, rimanda a gesti antichissimi, alla magia dell’equinozio primaverile, al ruolo fondante del sistema famigliare, alla vita dei campi, che dal passaggio neolitico arriva dritta fino a noi. In fondo, una volta scoperto il valore storico di Gobeklitepe, gli studiosi lo hanno interpretato come luogo di riunione annuale di una certa comunità.

Sedat Benek ha però cercato anche di portare a galla il malcontento della gestione amministrativa degli scavi da parte del governo centrale: gli intervistati garantiscono di essere talmente orgogliosi del loro passato, da non fidarsi a lasciarlo in mani straniere (il direttore degli scavi è stato il tedesco Schmidt per almeno 20 anni). Così, quando lo Stato interviene per espropriare, i proprietari dei terreni cercano quanto meno una buona fuoriuscita, ma vengono sistematicamente delusi.

Infine, la frase forse più significativa di questa burrascosa relazione tra abitanti e archeologia, la pronuncia un signore che ricorda la scoperta di una statua itifallica durante i lavori di aratura di un campo: cercando di capire come gestirla e dove portarla, lui e il padre ricevono il suggerimento di un amico: “è inutile. Portatelo in un museo e forse là potrà servire a qualcosa”. Evito di aggiungere commenti a una frase che spiega da sola tutto un mondo.

I volti

Immagine tratta dall’articolo di Classicult

Due film, invece, mi hanno colpito perché hanno coinvolto gli abitanti di due siti ben distinti. Il primo film Krošnja, ha per titolo il termine tecnico botanico in lingua serba che indica la parte di un albero che emerge dal terreno. In questo caso, a emergere nei boschi della zona tra i fiumi Ibar e Drina, sono stele funerarie i cui volti sembrano parenti di Giustiniano e della sua corte: visi triangolari, occhi sgranati, labbra sottili e rigide. Ognuno di loro è rappresentato con un oggetto caratterizzante (l’uomo con l’ombrello chiuso sembra la risposta serba al sogno magrittiano) e le lapidi spiegano la vita e la morte di queste persone. La scelta di ritrarli direttamente nel bosco e non in un museo è proprio la chiave di lettura che mi ha permesso di riconoscere direttamente le persone, senza filtri.

Infine Zakros, un lungo documentario sugli scavi cretesi diretti da Nikolaos Platon, che combina insieme filmati degli anni ’80 con scene moderne e che a un certo punto (il filo delle concatenazioni è un poco difficile da seguire e presenta, secondo me, diversi nodi che interrompono la narrazione) fa riferimento alla presenza di Lidio Cipriani e alle sue foto. Il maggiore Cipriani, nel 1942, approdò a Creta e riprese i lavori che da anni portava avanti sullo studio delle razze (il fantomatico Manifesto della Razza fu elaborato anche partendo dalle sue teorie): le foto di Cipriani ritraggono volti per poterli mettere in relazione a teorie su evoluzioni e affinità e infatti confluirono in un volume, pubblicato a Firenze nel 1943, dal titolo “Creta e l’origine mediterranea della civiltà”.

Ma riproponendo le foto di Cipriani, il regista cerca un possibile collegamento con gli abitanti moderni di Creta, in uno sforzo titanico di cambiare le premesse del lavoro del fascista Cirpiani e di sfruttare quello studio per poter ritrovare una continuità tra i residenti del passato e del presente.

La terra del ritorno

I carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale sono tra i protagonisti del film

Infine c’è “Askòs. Il canto della sirena“, il film che ha vinto il premio AudioVisiva, della giuria di qualità, e sul quale scriverò un’analisi condita di opinioni molto personali. Ebbene, il vaso del titolo, l’askòs, arriva sullo schermo solo dopo almeno 20 minuti: il vero fulcro della storia sono gli uomini che, a vario titolo, hanno avuto a che fare con esso e soprattutto l’intera popolazione, il territorio della gente. Una gente che ha visto la propria terra “bucherellata” che si è illusa di poter ricavare soldi da ciò che veniva alla luce, che si è sentita defraudata quando è emersa la questione del furto del vaso e che oggi lotta per ritrovare una identità, proprio attraverso gli antichi reperti.

Conclusione (?)

L’archeologia che abbiamo visto sullo schermo di questa XIII edizione, spesso e volentieri, è stata quella, se non pubblica, del pubblico: se oggi si parla tanto di divulgazione della cultura, è perché il divario tra scavo/studio e la popolazione che vive a contatto con ciò che deve essere scavato/studiato è davvero un ostacolo al progresso della scienza. E perché oggi più di prima riconosciamo all’archeologia il ruolo di sanare il divario, le ferite del tempo.

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