Il pomeriggio che diventai un bardo longobardo

Immagine di Chiara Raimondi

Una bella idea

Si è concluso ieri il convegno organizzato dai ragazzi di Let’s Dig Again: C.A.S.T. Convegno di Archeologia, Storia e giochi da Tavolo. Realizzato con il contributo di Ri-Volt/McWatt e patrocinato da Longobardi in ItaliaConfederazione Italiana Archeologi, Associazione Italiana di Public History e Federludo, il convegno si è svolto il 1 e 2 marzo a Firenze, negli spazi del Caffè Letterario Le Murate e di Murate Idea Park.

La prima giornata si è concentrata sui contributi di relatori che hanno portato la propria esperienza di “gamification“, un termine inglese che si riferisce in senso lato a programmazione di attività di gioco applicate ad ambiti che normalmente non lo prevedono. Nei vari ambiti in cui è possibile sviluppare attività di gioco c’è anche quello educativo, in cui il gioco può avere intenti didattici. Per questo motivo, il concetto di gamification sta divantando popolare e diffuso nei luoghi di divulgazione culturale, soprattutto di cultura antica.

La seconda giornata ha poi aggiunto la materia prima del convegno, ovvero i giochi e i loro giocatori! Una sala è stata interamente allestita con tavoli su cui hanno trovato posto tabelle e pedine, carte e regolamenti, scatole multicolori e perfino un intero e complesso diorama. Dalla mattina alla sera appassionati vecchi e nuovi hanno stretto alleanze oppure scoperto insanabili divergenze con alter ego provenienti da tutta Italia, mentre in una sala del Caffè Letterario continuavano gli interventi e venivano affrontati i temi più caldi del gioco di ruolo ambientato nell’antichità.

Quali fonti usare?

Per avere un’idea dei diversi aspetti affrontati negli interventi in sala vi mando direttamente alla pagina web che Let’s Dig Again ha dedicato a C.A.S.T. e agli account Facebook e Instagram che hanno raccolto le immagini salienti della due giorni.

Io invece voglio soffermarmi su alcuni argomenti che mi hanno incuriosito, per esempio la bella discussione sull’uso delle fonti antiche per ideare e organizzare un gioco, soprattutto un gioco di ruolo. I protagonisti della tavola rotonda erano persone impegnate da anni nella divulgazione storico-archeologico tramite giochi rievocati oppure creati ad hoc: Jacopo “Faust” Buttiglieri (Langobardia Horribilis), Laura Cardinale (Il Salotto di Giano APS, Jano Studio S.r.l., Federludo), Iacopo Trotta (Associazione AFBIS, Federludo), Mirella Vicini (Vicepresidente Federludo), Sara De Sanctis (D.R.A.G.O. APS, Federludo) e Marco Moderato (Accademia dei Pugni).

In maniera credo prevedibile la risposta alla domanda iniziale è stata unanime: le fonti vanno usate tutte! Ma i singoli relatori, ognuno impegnato in un ambito particolare della divulgazione storica, hanno sottolineato un aspetto che forse spesso sfugge: il gioco storico o archeologico che voglia riuscire nell’intento di immedesimarsi nell’epoca giocata, non dovrebbe avere lo scopo di ricreare un evento storico, ma di dare corpo al cosiddetto “non detto”.

Perché il bello non è riuscire a rivivere momento per momento un evento, anche famoso, per il quale abbiamo fonti scritte che di per sé sono fonti parziali e da maneggiare con cautela. Se vogliamo davvero trasmettere l’emozione della storia antica e magari aiutare a comprendere meglio gli usi e costumi antichi, è molto più utile (e più onesto) elaborare uno scenario inventato, ma plausibile e mettere il giocatore nella condizione di sviluppare la propria sensibilità all’argomento.

È un mondo difficile

La tavola rotonda successiva ha ribadito e ampliato i discorsi dei precedenti relatori: “Gioco e società: storia, archeologia e giochi a servizio di un progresso sostenibile e inclusivo“ con Giovanni Bacaro (Presidente Federludo), Laura Cardinale, Sara De Sanctis e Diego Morgera (Accademia dei Pugni). Io non ho potuto fare a meno di ricordare una collega che storceva il naso quando le raccontavo di creare in classe quiz a tema e brevi giochi di deduzione in cui gli studenti vestivano di volta in volta i panni di Teseo, Ulisse, Enea, oppure di aruspici etruschi. La collega mi diceva che non dovremmo “farli divertire”, ma istruirli e io pensavo che per me è impagabile l’emozione di ascoltare il ragionamento di uno studente o di una studentessa che cerca di prendere in considerazione i pro e i contro di una decisione che salverà la vita all’eroe oppure di capire come orientare il templum. Un altro aspetto che secondo me non viene mai considerato abbastanza è che il gioco in classe aiuta a creare un’atmosfera di collaborazione che nessun tema o quiz o ricerca di gruppo riuscirà mai a ottenere. In un’atmosfera di gioco anche la competitività riesce a trovare un proprio canale di sfogo e non si ferma alle aride questioni di voti e gratificazioni accademiche.

Giocano, sai? Giocano tutti! (quasi cit.)

Mattia Mancini (a sinistra) e Gabriele Zorzi

Mattia Mancini, Egittologo impegnato nella ricerca e nella divulgazione anche online con il suo celebre blog djedmedu, e Gabriele Zorzi, istrionico animatore delle tante attività di La Fara Longobarda, hanno infine contribuito alla discussione in maniera a un tempo rigorosa e divertente: il loro intervento ha riguardato alcuni giochi che venivano praticati, rispettivamente, nell’antico Egitto e nel mondo longobardo. Questo per ribadire il fatto che la dimensione del gioco appartiene all’animo umano ed è quindi parte integrante di quelle civiltà che vogliamo così ostinatamente studiare e divulgare!

Io, Ilderico

Immagine tratta dal sito:
https://travelnostop.com/lombardia/curiosita/alla-scoperta-dei-longobardi-con-il-gioco-di-ruolo-prima-che-il-gallo-canti_586211

E infine veniamo alla mia esperienza al C.A.S.T.! Sabato pomeriggio ho vissuto la mia prima avventura in un gioco à la Dungeons&Dragons ambientato nell’Italia longobarda!!

Il gioco si chiama “Prima che il Gallo Canti” ed è un’avventura basata sulla quinta edizione di D&D. Giada Taribelli ed Emilio Palmerini sono gli ideatori e gli sceneggiatori sia dell’avventura intera che del fumetto che ne definisce l’antefatto. Un fumetto disegnato e curato da Francesco Mazziotta. A Firenze il progetto è stato presentato da Arianna Petricone, che nell’ Associazione Italia Langobardorum è impegnata nella Segreteria Tecnico-Scientifica e nel coordinamento del sito seriale; accanto a lei Carlo Piloni (Project Manager Gummy Ind.) e Giovanni Manzoli (Business Unit Manager Gummy Ind.) hanno spiegato chiaramente che un prodotto di questo tipo, per essere efficace, deve essere coordinato e gestito non solo dagli esperti di storia longobarda, ma anche da esperti di game design e di fumetti. Perché, ancora una volta, ciò che viene prodotto non è una rievocazione storica ma un sistema per sperimentare la storia in modo immersivo e avvolgente.

Il fumetto e gli aspetti tecnici che in queste situazioni sono riservati al Master di un gioco di ruolo sono scaricabili nella sezione Download del sito di Longobardi in Italia, dove, tra l’altro, è possibile raccogliere molto materiale e informazioni sul sito seriale dei Longobardi, che coordina diverse aree archeologiche sparse per l’Italia.

Io, come dicevo, ho voluto provare l’ebbrezza di essere Ilderico, un bardo istruito presso Benevento, dall’aria pacioccona ma pronto a darsi da fare per aiutare il prossimo anche in situazioni complicate! Accanto a me Adelmo, Folco, Orso e Sigmar hanno vissuto un’avventura a tratti buffa ma molto avvincente. Nel nostro gruppo c’erano sia giocatori esperti sia chi, come me, per la prima volta si affacciava al mondo del gioco di ruolo. I nostri Master sono stati proprio i due autori dell’avventura, che ci hanno guidato con ironia e competenza.

CAST A…gain!

Spero che gli amici di Let’s Dig Again annuncino presto la seconda edizione di questa bella avventura. Perché il convegno ha il pregio di condividere idee ed esperienze e perché il mondo della divulgazione storico-archeologica in Italia ha bisogno di diffondere sempre di più le idee che le realtà anglosassone o francese, per esempio, stanno sviluppando già da tempo.

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La storia siamo (ancora) noi.

Ormai per me non esiste più ottobre senza il viaggio a Licodia Eubea, splendido paesino a un’ora da Catania, astro che brilla in una costellazione di borghi dal passato presente e vibrante (solo per citarne un paio: Vizzini e Grammichele, per i quali rimando a una serie di articoli che scrissi nella “discesa” del 2017).

La kermesse di Lorenzo Daniele, Alessandra Cilio e Mauro Italia ha cambiato veste (non più Rassegna ma Festival) ma non sostanza e anche quest’anno è un’occasione stimolante, che porta incontri, scambi e progetti, ma soprattutto belle emozioni e momenti di simpatica euforia.

Ogni anno mi riprometto di scrivere lunghi articoli, di sviluppare i collegamenti che mi sono venuti in mente guardando i film, ma è davvero dura fermarsi e riordinare le idee durante i giorni del Festival, e l’andare via equivale per me a essere risucchiata nel vortice degli impegni, quelli da cui per qualche giorno mi ero riuscita ad allontanare. Eppure, forse questa volta riesco a elaborare un breve post su un aspetto che mi sta affascinando particolarmente.

Tema

Il bello di iniziative di questo tipo è la varietà di offerta di film che viene proposta: i titoli in lista possono soddisfare gusti anche molto diversi e l’unico tema che hanno in comune è il rapporto con il passato, solitamente un passato archeologico. Ma la direzione artistica qui a Licodia cerca di costruire la scaletta delle proposte seguendo un filo conduttore, così che gli argomenti si svolgono dinanzi allo spettatore secondo una logica e formando un quadro coerente.

I film di quest’anno a Licodia Eubea presentano spesso la relazione tra l’attività scientifica degli archeologi e la popolazione che risiede nel territorio interessato dalla ricerca.

Svolgimento

Negli ultimi anni si è fatta più pressante la necessità, da parte degli addetti ai lavori, di coinvolgere la popolazione nelle ricerche, evocando una “archeologia pubblica” che viene spesso declinata in modi estremamente diversi, ma che in fin dei conti chiede semplicemente che si metta più attenzione nel rapporto tra chi cerca la storia e le persone che quella ricerca dovrebbero usufruire.

Ebbene, nei film in concorso ho trovato spesso l’intenzione da parte del regista di ascoltare le voci dei non addetti ai lavori o di interrogarsi sulla trasformazione del luogo nei volti e nelle abitudini dei suoi abitanti.

Il documentario “Gli abitanti di Gobeklitepe” di Sedat Benek, per esempio, prende uno dei siti archeologici più importanti e più discussi, la cui datazione porta a rivedere la seriazione cronologica addirittura del Neolitico, e lo dà in pasto agli abitanti della zona. In un continuo andirivieni tra sito e paese annesso, il regista ci spiega, attraverso le voci delle persone del luogo, che Gobeklitepe è sempre stato considerato sacro, fino a inventarsi una formula di giuramento su quelle rovine (lo giuro su Gobekli Tepe).

Uno degli intervistati spiega che sua nonna organizzava ogni anno un vero e proprio rituale di purificazione e propiziatorio di un buon raccolto: tra il 20 e il 22 marzo tutta la famiglia raggiungeva la zona, che ancora non era stata indagata, e la nonna benediva le pecore. Tutto, in questo rituale, rimanda a gesti antichissimi, alla magia dell’equinozio primaverile, al ruolo fondante del sistema famigliare, alla vita dei campi, che dal passaggio neolitico arriva dritta fino a noi. In fondo, una volta scoperto il valore storico di Gobeklitepe, gli studiosi lo hanno interpretato come luogo di riunione annuale di una certa comunità.

Sedat Benek ha però cercato anche di portare a galla il malcontento della gestione amministrativa degli scavi da parte del governo centrale: gli intervistati garantiscono di essere talmente orgogliosi del loro passato, da non fidarsi a lasciarlo in mani straniere (il direttore degli scavi è stato il tedesco Schmidt per almeno 20 anni). Così, quando lo Stato interviene per espropriare, i proprietari dei terreni cercano quanto meno una buona fuoriuscita, ma vengono sistematicamente delusi.

Infine, la frase forse più significativa di questa burrascosa relazione tra abitanti e archeologia, la pronuncia un signore che ricorda la scoperta di una statua itifallica durante i lavori di aratura di un campo: cercando di capire come gestirla e dove portarla, lui e il padre ricevono il suggerimento di un amico: “è inutile. Portatelo in un museo e forse là potrà servire a qualcosa”. Evito di aggiungere commenti a una frase che spiega da sola tutto un mondo.

I volti

Immagine tratta dall’articolo di Classicult

Due film, invece, mi hanno colpito perché hanno coinvolto gli abitanti di due siti ben distinti. Il primo film Krošnja, ha per titolo il termine tecnico botanico in lingua serba che indica la parte di un albero che emerge dal terreno. In questo caso, a emergere nei boschi della zona tra i fiumi Ibar e Drina, sono stele funerarie i cui volti sembrano parenti di Giustiniano e della sua corte: visi triangolari, occhi sgranati, labbra sottili e rigide. Ognuno di loro è rappresentato con un oggetto caratterizzante (l’uomo con l’ombrello chiuso sembra la risposta serba al sogno magrittiano) e le lapidi spiegano la vita e la morte di queste persone. La scelta di ritrarli direttamente nel bosco e non in un museo è proprio la chiave di lettura che mi ha permesso di riconoscere direttamente le persone, senza filtri.

Infine Zakros, un lungo documentario sugli scavi cretesi diretti da Nikolaos Platon, che combina insieme filmati degli anni ’80 con scene moderne e che a un certo punto (il filo delle concatenazioni è un poco difficile da seguire e presenta, secondo me, diversi nodi che interrompono la narrazione) fa riferimento alla presenza di Lidio Cipriani e alle sue foto. Il maggiore Cipriani, nel 1942, approdò a Creta e riprese i lavori che da anni portava avanti sullo studio delle razze (il fantomatico Manifesto della Razza fu elaborato anche partendo dalle sue teorie): le foto di Cipriani ritraggono volti per poterli mettere in relazione a teorie su evoluzioni e affinità e infatti confluirono in un volume, pubblicato a Firenze nel 1943, dal titolo “Creta e l’origine mediterranea della civiltà”.

Ma riproponendo le foto di Cipriani, il regista cerca un possibile collegamento con gli abitanti moderni di Creta, in uno sforzo titanico di cambiare le premesse del lavoro del fascista Cirpiani e di sfruttare quello studio per poter ritrovare una continuità tra i residenti del passato e del presente.

La terra del ritorno

I carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale sono tra i protagonisti del film

Infine c’è “Askòs. Il canto della sirena“, il film che ha vinto il premio AudioVisiva, della giuria di qualità, e sul quale scriverò un’analisi condita di opinioni molto personali. Ebbene, il vaso del titolo, l’askòs, arriva sullo schermo solo dopo almeno 20 minuti: il vero fulcro della storia sono gli uomini che, a vario titolo, hanno avuto a che fare con esso e soprattutto l’intera popolazione, il territorio della gente. Una gente che ha visto la propria terra “bucherellata” che si è illusa di poter ricavare soldi da ciò che veniva alla luce, che si è sentita defraudata quando è emersa la questione del furto del vaso e che oggi lotta per ritrovare una identità, proprio attraverso gli antichi reperti.

Conclusione (?)

L’archeologia che abbiamo visto sullo schermo di questa XIII edizione, spesso e volentieri, è stata quella, se non pubblica, del pubblico: se oggi si parla tanto di divulgazione della cultura, è perché il divario tra scavo/studio e la popolazione che vive a contatto con ciò che deve essere scavato/studiato è davvero un ostacolo al progresso della scienza. E perché oggi più di prima riconosciamo all’archeologia il ruolo di sanare il divario, le ferite del tempo.

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In compagnia

Ci sono dei brani musicali che entrano nei precordi di questo mio vecchio mondo interiore e raggiungono immagini talmente lontane da balzarmi agli occhi già incorniciate. La routine delle nostre domeniche in via Crispi era scandita dagli umori di mia madre, che solitamente era sempre in vena di qualche brano chopeniano. Mazurke, ballate, soprattutto queste ultime.

Riprendo l’ascolto della amata Radio Tre dopo alcuni mesi di distacco e mi imbatto in una trasmissione che propone dei taccuini personali di varie voci di Radio Tre. È la volta di Giovanna Natalini, la quale comincia con un Vivaldi raffinato e poi propone Arturo Benedetti Michelangeli e Chopin:

Io mi fermo e ascolto e nel giro di poche battute ritrovo il nostro salotto e vedo le spalle di mia mamma incurvarsi sugli accordi, torno a seguire il moto che sembra perpetuo delle semicrome, ricordo perfettamente le pause, le accelerate. Ed è ancora domenica e io resto sul divano ad ascoltare mia madre e lei diventa Chopin, no anzi è lei stessa tastiera e pianista, lei stessa spartito e interprete, per alcuni bellissimi momenti non esiste nient’altro, e ciò che esiste è solo mio.

Un viaggio

Comincio così, in una domenica densa di ricordi che, come martelletti sottili battono sui precordi, come dicevamo, il racconto di un viaggio fatto inseguendo fiabe e boschi incantati e che mi ha portato in un mondo medievale che non mi aspettavo.

La Bretagna ha sempre avuto un posto speciale nella mia lista di luoghi da visitare e il fascino della meta è aumentato man mano che mi sono immersa nella lettura e poi nello studio delle leggende su Melusina, la Dama del Lago, il ciclo bretone e La Morte d’Arthur, Broceliande.

La foresta

Broceliande è stata infatti la prima tappa e forse l’unica veramente legata alle leggende che volevo inseguire: il nome moderno è Paimpont, ma per noi visitatori, che siamo la forma un poco più snob dei seguaci delle saghe tolkeniane, il nome Broceliande resta impresso sulle cartine e sui tanti gadget:

Che tu sia un camminatore o che voglia affittare una bicicletta oppure senza abbandonare la tua macchina o il tuo camper, i sentieri e le strade della foresta ti accompagnano nei luoghi che la tradizione ha legato indissolubilmente ai protagonisti dei racconti arturiani: Mago Merlino, la chiesa del Graal, la saggezza druidica, l’acqua che garantisce vita eterna e che è custodita da donne bellissime.

Saghe del bosco

Le vicende di Merlino e di Re Artù sono ovviamente legate a Camelot e ai luoghi che oggi pare poter riconoscere nei castelli della Cornovaglia o in alcuni laghi del Galles, ma il legame con l’immaginario francese è storico: Brittany è il nome della regione da cui provengono alcuni dei cavalieri, Broceliande parrebbe essere il luogo di origine di Viviane, alla Cornovaglia inglese fa da contraltare la Cornouaille bretone, e così via. Le imprese dei cavalieri alla ricerca del Graal hanno lasciato tracce nelle numerose chiese che tra il XII e il XIII secolo sono sorte dall’una e dall’altra parte del Canale e che, questo è poi il punto che mi interessa di più, hanno riacquistato visibilità e fama nel corso del Novecento, allorché lo studio delle leggende cavalleresche proiettava la propria ombra sull’immaginario non solo di professori di storia e folklore, ma anche di appassionati di racconti di imprese.

Paladini

Perciò mio fratello ha deciso di sfidare a duello ogni barone, il cui fiore è radunato qui, per dimostrare il suo valore: che sia pagano o battezzato, lo venga a incontrare fuori dalla città, nel verde prato alla Fonte del Pino, dove si dice che ci sia il Pietrone [la tomba] di Merlino.

27
Per tanto ha il mio fratel deliberato,
Per sua virtute quivi dimostrare,
Dove il fior de’ baroni è radunato,
Ad uno ad un per giostra contrastare:
O voglia esser pagano o baptizato,
Fuor de la terra lo venga a trovare,
Nel verde prato alla Fonte del Pino,
Dove se dice al Petron di Merlino.

Matteo Maria Boiardo, L’Orlando Innamorato. (1.1.27)

Il “pietrone di Merlino”, che un pannello poco distante ci dice essere un antico dolmen, datato in età neolitica, è il luogo che la tradizione locale ha associato al druido consigliere di Artù. La storia di Merlino nasce in Scozia e attraversa numerose tradizioni celtiche per approdare a Broceliande, dove, stando al Lancelot-Graal o Livre du Graal, opera del XIII secolo, Viviane imprigiona Merlino per sempre. Quando, nel 1483, Boiardo descrive il duello per la mano di Angelica, appare inevitabile ambientarlo in un luogo estremamente significativo per cavalieri senza macchia e senza paura: proprio la tomba dell’antico consigliere del grande re Artù (come non pensare al ruolo delle tombe degli antenati nella gestione degli affari dei guerrieri come ci viene proposto da Omero presso la tomba di Ilo, Iliade X, 414),

Profeta, ama te stesso

Concludo questa prima tappa del viaggio bretone con una riflessione proprio sulla morte di Merlino. Dicevamo che le versioni sulla sua tomba sono molteplici: Merlino è imprigionato in una grotta, in un albero, sotto una pietra… Ma resta invariata la dinamica tra lui e Viviane (o Nimiane o Nimue), per cui la bella allieva, di cui l’anziano mago è innamorato, gli gioca un brutto tiro e lo convince a mostrarle fino a che punto può la sua magia, lo convince a imprigionarsi. Merlino è innanzitutto un veggente, come può restare ingannato dalla giovane apprendista? Beh, forse il personaggio di Merlino è molto più profondo di quello che ci hanno abituato a pensare: le primissime testimonianze, dai lavori di Geoffrey di Monmouth (XII secolo) alle versioni gallesi o scozzesi del secolo successivo, ci parlano di un “matto”, Merlino bardo impazzito dalle visioni tragiche della guerra. Un uomo sensibile agli orrori della vita, che a poco a poco incarna il ruolo del consigliere saggio e spregiudicato, del figlio di Satana, salvato dal battesimo, ma che mantiene nella sua natura la necessità di stupirsi della vita e delle persone, di cadere perdutamente innamorato. Perciò, sì, Merlino sa che morirà, che resterà imprigionato per sempre, ma non può negare nulla alla sua amata, nemmeno la propria morte.

E noi, che siamo un po’ romantici come Merlino, preferiamo credere, anziché alla roccia che lo schiaccia, a una versione riportata nel Livre du Graal, secondo la quale Nimue costringe Merlino a risiedere in una torre di cristallo invisibile all’occhio umano: dall’esterno si vede solo una nebbia, Merlino invece resta nella torre e attende Nimue, che lo visita ogni notte…

L’apprendista cresce

Curiosamente, Giovanna Natalini propone poi un brano che ha segnato, per me, il taglio del cordone ombelicale di mia madre (per quel che riguarda le scelte musicali), perché il concerto per violino e orchestra di Beethoven è stata la prima scelta autonoma in fatto di musica: non lo avevo ascoltato in casa, ma in una pubblicità che promuoveva l’ultima incisione di Uto Ughi. Questo concerto ha parlato non più a mia madre, ma a me direttamente, e così sono andata a “La Fenice” a cercarlo e comprarlo.

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Punti di vista

Paolo Veronese, Crocifissione, 1582 circa (oggi al Louvre)

La prima volta che sono entrata al Louvre è stato, mi sembra, nel 2011. Accompagnavo un gruppo di ragazzini statunitensi e li lasciai nelle capaci mani della guida e degli altri miei colleghi, mentre io mi perdevo nei meandri del piano terra, tra i miei amati antichi. Decisi, tuttavia, che dovevo pagare il pegno di una capatina davanti alla Monnalisa e quindi mi intrufolai e raggiunsi la sala 711 al primo piano.

Mentre sorridevo nel vedere l’accalcarsi di gente davanti al piccolo quadro, schermato dal vetro, restai affascinata dalle “Nozze di Cana”, di Paolo Veronese, che campeggia sulla parete opposta, quasi 10 metri di lunghezza; il quadro che una signora indiana stava descrivendo alla figlia come “L’ultima cena”, per cui io mi sentii in dovere di correggerla…

Ma prima di lasciare la sala restai colpita da un quadro sulla parete destra (guardando la Gioconda), un altro lavoro di Veronese, una crocifissione. Quello che mi colpì fu la composizione della scena: non le tre croci frontali, con la Maddalena, Giovanni e Maria addolorati ai piedi di quella centrale, non angeli svolazzanti disperati, non legionari con spugne imbevute di aceto oppure sghignazzanti che si giocano ai dadi la tunica.

No, Veronese mette le croci di scorcio, sulla sinistra.

Questioni di prospettiva

Io non sono una storica dell’arte e così ho provato a cercare commenti ben più professionali che potessero spiegarmi la scelta del pittore. Ho trovato alcune schede del dipinto, che elencano gli altri casi in cui Veronese (ma prima di lui, per esempio, Tintoretto) decide di abbandonare la visione frontale delle croci. Ciò che desta ammirazione e suggerisce approfondimento è la composizione delle persone ai piedi delle croci: la figura di Maria svenuta riprende un preciso topos letterario e iconografico.

Si viene a creare una sorta di piramide tra il vertice della croce del Nazareno, identificata dal cartiglio con INRI, e la Madonna svenuta a terra (vedi a sinistra)

La stessa disposizione si può trovare in un altro dipinto, di maggiori dimensioni, dove addirittura le tre croci sono un dettaglio, il Golgota non è che un evento che accade mentre la scena principale si svolge al centro del dipinto (vedi sotto)

Ma non sono riuscita a trovare un commento che esprimesse il mio stato d’animo, ciò che ho provato nel guardare il quadro la prima volta.

Peeping Stefi

Abituata alle crocifissioni frontali, figlie della tradizione da icona che ti propone già la chiave di lettura e ti chiede solo di credere, obbedire e rendere omaggio, la composizione di Veronese mi ha spiazzato.

Mi è sembrato di imbattermi nella scena quasi per caso, di entrare nello spazio della crocifissione da una strada laterale, come se mi fossi persa e, all’improvviso, mi trovassi dinanzi al momento più importante di una religione: il momento del tra-passo, del dio che muore e sperimenta in tutto e per tutto l’essere umano.

Il quadro di Paolo Veronese mi ha colpito nel profondo, proprio per quel suo chiederci di entrare nella scena in punta di piedi: una madre sta soffrendo in maniera indicibile, un uomo sta morendo, un dio si sta sacrificando, puoi non crederci, se non vuoi, ma tutto ciò sta accadendo “nonostante te”, “nonostante la tua fede”. Perciò abbi rispetto e avvicinati piano.

Nessuno ti guarda, nessuno si interessa a te, sei tu che devi farti carico della responsabilità del fedele e comprendere che, se ti farai più vicino, diventerai un martire, un testimone.

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