Gli dèi all’opera

Prologo

Un libretto piccolo piccolo, sia di formato che di spessore, ecco come mi si è presentato “L’Anello di Wagner” di Giorgio Pestelli (Donzelli editore, 2018). L’idea di immergermi nella sua lettura mi veniva sollecitata dalla passione per le storie e per i miti e da un ricordo lontano che legava i miti e le trame di opere liriche. Intorno ai dodici anni mi capitava spesso di andare a casa di una compagna di scuola, la cui nonna era “la prima arpa” dell’orchestra del Maggio. Una casa piena di spartiti, dunque, un pianoforte a mezza coda e, naturalmente, l’arpa. Quella famiglia era destinata ad avere un ruolo fondamentale nella vita di mia madre, ma questo ancora non lo sapevo.

Sapevo, però, che la mia amica aveva un libro molto voluminoso, dalla copertina rigida (quasi legnosa) nera e che in quel libro erano condensate le trame di TUTTE le opere liriche mai composte. Io leggevo i riassunti con lo stesso spirito entusiasta con cui bevevo le pagine di “Dèi ed eroi della Mitologia”: una serie di libri dedicati alla mitologia greca, romana, egizia, vichinga, che leggevo con avidità.

All’epoca non potevo cogliere il legame sotteso ai tanti, diversi racconti. Ma avvertivo il fascino di quelle vicende così remote e allo stesso tempo così familiari.

Atto Primo – scena di natura

È stato dunque un moto di nostalgia che mi ha portato ad aprire il libro di Pestelli. Ma quello che ho trovato è andato ben oltre ogni aspettativa: una vera e propria guida alla tetralogia, dove si ha la sensazione di aggirarsi indisturbati tra gli orchestrali e di leggere le scene direttamente sui loro strumenti. Ecco un esempio che spero spiegherà meglio ciò che intendo:

Anche la Walkiria incomincia con una entusiasmante “scena di natura”, un preludio in cui infuria una tempesta, fenomeno naturale presente in ogni atto dell’opera (…) le ottave ribattute sul pianoforte dalla mano destra diventano in Wagner un tremolo all’ottava, sempre su doppie corde, di violini secondi e viole sulla nota Re prolungato per 60 battute, rombo che cresce e diminuisce come le ventate e gli scrosci (…)

Pestelli, L’Anello di Wagner, pag.80

E così, in men che non si dica, mi sono trovata a leggere la preziosa guida davanti a un video recuperato su youtube, che riproduceva di volta in volta un’opera della tetralogia. Ho potuto seguire le fasi della composizione wagneriana, ma soprattutto introdurmi nel pensiero di Wagner, nella testa di Wotan, nel cuore di Brünnhilde, nell’animo di Siegfried, nel ghigno di Alberich, negli spruzzi delle Ondine.

Grazie alla guida sapiente e gentile di Giorgio Pestelli mi sono commossa. Ho ascoltato il dolore di un padre e di una figlia; ho guardato l’ingenuità di Siegfried e ne ho provato pietà. Ho ascoltato le voci delle Walkirie e ho intuito il loro dramma di figlie e dee, ho ascoltato la frivolezza delle Ondine e ne ho inteso la pericolosa lusinga, ho ascoltato la gravità delle Norne e ne ho compreso la disperazione.

Atto secondo – miti a confronto

Non sono in grado di elaborare qui un’analisi delle suggestioni classiche che Wagner ha utilizzato come riferimenti, anzi rimando volentieri non solo alla trattazione di Pestelli ma anche alla ricca bibliografia che l’autore produce. Wagner ha voluto mettere in musica una saga che riprendesse la tradizione celtica e i miti del Walhalla, seguendo una prima forte influenza folklorica: non dimentichiamoci che la stesura della tetralogia è stata molto lunga (forse già a partire dal 1849, fino alla prima rappresentazione nel 1876) ed è iniziata con la figura di Siegfried e con un richiamo ad alcune fiabe tedesche a cui il lavoro certosino dei fratelli Grimm aveva dato dignità letteraria. Siegfried era il personaggio più adatto, tra l’altro, a rappresentare anche molte istanze politiche che negli anni quaranta e cinquanta dell’800 stavano facendo letteralmente esplodere l’Europa.

Scena prima: Herda

Tuttavia, la figura della Madre Terra che dialoga con Wotan sull’ineluttabilità degli oracoli, mi ha risvegliato la memoria di Themis, personaggio primordiale del mito greco, presente a Dodona, il sito oracolare sacro a Zeus, con un tempio, ma anche a Delfi, dove Pseudo Apollodoro (Biblioteca 1.22) la ricorda oracolo originario ben prima dell’avvento di Apollo e dove Pausania (Periegesi della Grecia 10.3.5) ci dice che Gea, la versione greca della Madre Terra, era solita pronunciare oracoli.

Scena seconda: Walkirie e Ondine

Fonte: wikicommons The valkyries Hildr, Þrúðr and Hlökk bearing ale in Valhalla (1895) by Lorenz Frølich

Le Walkirie, antiche divinità acquatiche che nel Völundarkviða (Wolundar), che fa parte della vecchia Edda, sono ritratte nell’atto di spogliarsi delle piume di cigno e bagnarsi come giovani dee sulle rive di fiumi che attraversano fitte foreste. Le Walkirie, che sottraggono gli eroi dal campo di battaglia, eroi nordici che però condividono con i giovani greci e romani la condizione di nympholeptoi, cioè di rapiti dalle ninfe verso una vita non più vita, ma non per questo meno degna di essere cantata.

Fonte: wikicommons Åsgårdsreienlit.‘The Ride of Asgard‘, an 1872 painting by Peter Nicolai Arbo.

Con le Ondine il percorso è più breve: le figlie del Reno o del Re dei mari, gli esseri elementali studiati da Paracelso, sono solo una ennesima versione di quella piacevole paura, di quel brivido che ogni ragazzo, dalle rive dell’Ilisso alle sponde del Reno, sperava di provare almeno una volta nella vita. Con il pensiero vado a Hylas e ai versi che Teocrito dedica alla sua morte prematura:

In mezzo all’acqua danzavano le Ninfe, le Ninfe insonni, dee tremende ai contadini, Eunice e Malis e Nichea, che ha la primavera nello sguardo. Il fanciullo accostò all’acqua la sua grande brocca per attingere: subito tutte gli afferrano la mano, perché a tutte il tenero seno palpitava d’amore per il ragazzo argivo. Cadde di colpo nell’acqua nera (…)

Teocrito, Idillio XIII, vv. 43-49 (ed. Oscar Mondadori 1991, traduzione Marina Cavalli)

Scena terza: un drago e il suo oro

Ma le Ondine di Wagner proteggono un tesoro vero, una quantità d’oro degna di ripagare la grande opera del Walhalla. Quel tesoro, e l’anello che verrà maledetto, finirà tra gli artigli di un drago e come non pensare a quello che è forse il più antico drago guardiano d’oro nella storia del mito? Ladone, così lo chiama Esiodo nella Teogonia (v. 333) è il drakon che avvolge le proprie spire attorno all’albero dei pomi d’oro, quello del giardino delle Esperidi.

Il giardino delle Esperidi ritratto su un cratere a figure rosse del Pittore di Lycurgo, 360 a.C. Lo potete trovare al museo Jatta a Ruvo di Puglia. Questa immagine l’ho recuperata dalla pagina facebook del museo.

Atto terzo – l’artista

Immergermi nella tetralogia è stato come aprire uno dopo l’altro i libri più antichi delle storie degli dèi e dei mortali, uomini e donne sconvolti dalle azioni di divinità che agiscono in preda alle emozioni più violente. Mentre un destino imperscrutabile avvolge tutto e tutti, gli esseri mortali parlano con gli dèi, si innamorano di loro, li odiano, li combattono, scendono a patti con loro, li seguono fino alla completa distruzione.

E mentre i gorghi del Reno luccicavano invitanti, ecco che mi sono imbattuta in un altro fenomeno, una meteora, per così dire, che rischiara l’universo creato da Wagner: Mariano Fortuny y Madrazo (1871-1949).

L’artista spagnolo mi incuriosisce da alcuni anni: prima sono stati i suoi quadri, dai chiaroscuri quasi violenti, drammatici e molto mediterranei; poi sono state le sue stoffe, stampate con motivi attinti dalle decorazioni vascolari e dagli affreschi che Sir Arthur Evans stava riportando alla luce tra le aride zolle di Cnossos a Creta proprio in quegli anni.

A poco a poco ho cominciato a guardare più da vicino questo artista geniale, che sembra avere avuto una passione per la sperimentazione e la contaminazione di generi e di tecniche. La tecnica della stampa, l’arte tessile e l’archeologia, ma anche le applicazioni pratiche dell’elettricità, l’arte scenografica e…la tetralogia!

Una delle passioni di Fortuny è infatti proprio l’opera di Wagner e sono infatti sue alcune delle immagini più iconiche dei personaggi e delle scene della saga nibelunga.


Non credo di aver visto una immagine più struggente: si tratta di Siegliende e Siegmund, fratelli separati alla nascita, figli di Wotan, perdutamente innamorati l’uno dell’altra e genitori di Siegfried. La spada di Siegmund, che scandirà i momenti salienti della saga, annuncia una fine tragica, ma il loro abbraccio sembra quasi di poterlo toccare. foto mia.
Henriette Negrin foto mia

Visitando la casa-atelier museo di Fortuny e della moglie Henriette Negrin (musa preziosa e collaboratrice molto attiva) a Venezia, scopro che l’artista aveva anche messo a punto un innovativo sistema per illuminare i fondali e creare profondità di paesaggi nel teatro di Bayreuth. Questa cittadina bavarese era stata scelta da Wagner per realizzare un teatro costruito espressamente per contenere la tetralogia.

Maquette per l’Oro del Reno di Richard Wagner applicata al modello per il teatro di Bayreuth, 1903 foto mia

Fortuny resta ammaliato da tutti i personaggi wagneriani e infatti alcuni quadri sono dedicati anche alla vicenda di Parsifal.

Queste sono le magiche fanciulle-fiore che si rivolgono a Parsifal: “Che dolci profumi… Siete voi fiori?”
“Siam del giardino gli spiriti aulenti… Cresciamo nel sole d’estate… Sii il nostro tenero amico…” anche per loro un destino da ninfe che rapiscono eroi. foto mia nel museo Fortuny

Epilogo

Queste mie riflessioni sono uscite qui sul blog perché … non ne potevano fare a meno. Ho ceduto alla loro insistenza e, per quanto si tratti ancora di abbozzi, ho deciso comunque di mettere nero su bianco le tante suggestioni suscitate dalla lettura della tetralogia wagneriana attraverso la guida di Giorgio Pestelli.

Ho dovuto, in qualche maniera, cominciare ad affrontare il cipiglio di Brünnhilde e la svagatezza di Siegfried o le risate argentine delle Ondine.

Ma in effetti mi piace immaginarmi nel giardino d’inverno di Fortuny, circondata da stoffe e damaschi, avvolta in profumi speziati. Vorrei provare a seguire il pennello mentre crea le ombre che minacciano i fratelli abbracciati, oppure scorgere sul volto del pittore un sorriso, un lampo nello sguardo, mentre immerge le Ondine nella luce…

Siegfried e le Ondine foto mia
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“Il re è vivo?”

Mentis Bostantzoglou (Bost), Alessandro Magno con la sorella (1984)
https://parallaximag.gr/thessaloniki-news/gorgona-thessaloniki

Le sirene dell’Egeo possono essere piuttosto insistenti. Se ve ne trovate una davanti nel mare in tempesta, probabilmente comincerà a chiedervi minacciosa “Alessandro è vivo?” Mi raccomando, la vostra risposta dovrà essere repentina e sicura: “Alessandro vive e regna!”, solo così la sirena (o la Gorgona) aiuterà la vostra imbarcazione, calmando le acque e salvandovi da un brutto naufragio.

La leggenda di Alessandro Magno si fonda con il folklore più stratificato e racconta di una famiglia mitica, in cui la sirena sarebbe addirittura sorella del re macedone. Ma del rapporto tra sovranità e ninfe o sirene ho parlato altrove e non è questo il luogo adatto per rifletterci.

Un re e la sua isola

Questa stessa apprensione mi è sembrato di scorgere nella voce di Maud, sirenesca e fatata presenza nella suggestiva ultima pubblicazione di Wu Ming 4 “La vera storia della banda Hood”.

Maud, come altri personaggi del romanzo, rivolge tale domanda a un cavaliere, prima ancora di capire chi è e cosa lo spinge ad addentrarsi nella foresta: non appena vede la croce sul petto e comprende la sua identità di crociato, gli chiede se Riccardo “Cuor di leone” sia ancora vivo. Una domanda legittima, viste le condizioni precarie in cui versa l’Inghilterra che il crociato ha lasciato, e soprattutto considerato il fatto che Maud e gli altri stanno abitando più o meno abusivamente la foresta, proprietà del re.

Il racconto dei ladri ragazzi è estremamente coinvolgente e permette di guardare alla leggenda con occhi al contempo più storici e più sognanti. L’autore, presentando il libro alla Biblioteca delle Oblate, ha spiegato di aver fatto ricorso a fonti letterarie primarie, vale a dire le ballate medievali che cantavano di ragazzi del popolo, nascosti nella foresta di Sherwood, abili nello spogliare frati e nobili di passaggio.

Ora, non voglio rivelare troppi dettagli, anzi spero di incuriosire e motivare a leggere questa rivisitazione di un personaggio molto popolare. Il Robin Hood che viene raccontato da Wu Ming 4 è molto diverso da quello a cui la fortuna letteraria e cinematografica ci ha abituato, ma il piacere sta proprio nell’individuare la formazione del mito Robin Hood attraverso i dettagli più verosimili e storici raccolti in quest’ultima versione.

Questa è un’altra foresta, quella bretone di Broceliande, ma strettamente legata alle vicende mitiche dei Sassoni.

Perciò cercherò di evitare le vicende narrate troppo da vicino e mi concentrerò su alcuni personaggi. Maud, come avrete intuito, è sicuramente la figura che catalizza attorno a sé le emozioni più intense: curiosità, fascino, timore, un senso di appartenenza.

È una ragazzina (ma nella foresta il tempo accelera e rallenta senza seguire le logiche del villaggio o della città) abbigliata, per così dire, come si conviene a una creatura magica: capelli rossi e ricci, lentiggini, occhi verdi , lingua sciolta. La sua esuberanza è contenuta in un convento, da cui viene “estratta” quasi come la luna nel pozzo della fiaba: uno dei ragazzi incappucciati la lega con una corda e la issa al di qua dello steccato.

Ecco che è libera, ma anziché seguire il gruppo, Maud lo guida. Diviene la saggia che racconti i segreti della foresta, quelli delle erbe, degli alberi, dei troll. Maud impone la “legge delle storie”, per cui la vediamo raccontare ai “bimbi sperduti” tutto quello che devono sapere per dialogare con la foresta e non esserne inghiottiti, annientati.

Ma Maud è anche una figura che unisce due mondi e in questo senso sembra la degna erede delle sacerdotesse di Avalon, perché è lei la prima a riconoscere la devozione alla Vergine Maria. Tale dettaglio, che tanto marginale non è, sembra essere presente proprio nelle antiche ballate che hanno ispirato l’autore. Un mondo di madri mancate o desiderate, ecco cosa viene offerto ai ragazzi incappucciati.

Mentre in un punto noto solo a loro il volto arboreo del Green Man li guarda dal tronco di un albero, e mentre Cernunnos tenta di inghiottirli nell’oscurità, e mentre un cervo bianco ricorda che quelle sono le terre di un re.

La foresta di Wu Ming 4 è estremamente popolata e forse ci aspetteranno un Tom Bombadil che canta trasognato tenendo per mano la sua Baccadoro, ma quella è un’altra foresta, di un’altra terra, solo meno distante, ma distinta.

Leggere le vicende della banda di Sherwood in questo clima primordiale, di genesi e allo stesso tempo di stratificazione di miti, mi ha fatto tornare in mente una visita bellissima al museo delle terme romane di Bath. Il sito romano sorse su acque termali dove furono edificati non solo le sale delle abluzioni, così popolari presso di Romani, ma anche un tempio dedicato a divinità collegate alle acque e alle loro proprietà curative. Gli scavi hanno permesso di individuare una antica divinità locale detta Sulis, cui sarebbe stata associata Minerva – spesso legata a culti salutari – e anche una dea Luna, antica personificazione spesso sovrapposta a Diana. Ma ciò che mi ha risvegliato la memoria del sito termale è stato il pensiero del frontone del tempio di Minerva: ancora non completamente decifrato, il grande volto che campeggia sullo scudo circolare inscritto nello spazio frontonale, sembra proprio l’antesignano del Green Man.

Fonte dell’immagine: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Roman_baths_temple_pediment_02.JPG

Questa figura del folklore inglese è molto popolare ed è variamente identificata con folletti o creature del bosco, non sempre gentili, anzi spesso aggressive. Il volto arcigno è incorniciato da ciocche di capelli fluenti e una barba incolta. Gli occhi ti guardano, grandi e penetranti e spesso minacciosi. Ebbene, in un agile pamphlet a cura di Jeremy Harte, viene tracciata la possibile evoluzione iconografica: da decorazioni di età romana con teste di gorgoni circondate da serpenti e da motivi vegetali, alle elaborazioni cinquecentesche e poi barocche, fino alla trasformazione definitiva. Il volto di Bath non ha nulla di gorgonesco, se non la posizione centrale su uno scudo e lo sguardo magnetico, chissà se possiamo dire di trovarci di fronte a una sorta di grado zero…

Una delle riflessioni scaturite dalla presentazione del libro è che la figura di Robin Hood sarebbe un eroe dai mille volti nel senso di una composizione di più volti, di più personaggi, che prendono il nome dal Robin Goodfellow della tradizione folklorica inglese e i tratti del viso dal gruppo di ragazzi che si sono, letteralmente, dati alla macchia.

Mi piace pensare al libro di Wu Ming 4 come a un caleidoscopio, che ci permette di scomporre l’immagine popolare di Robin Hood nelle tante piccole tessere colorate e di tornare al giorno in cui quelle tessere sono state raccolte e composte per creare il volto di Hood.

E mi piace pensare che almeno tre o quattro di quelle tessere riproducano i riccioli rossi e lo sguardo profondo della magica Maud.

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Il pomeriggio che diventai un bardo longobardo

Immagine di Chiara Raimondi

Una bella idea

Si è concluso ieri il convegno organizzato dai ragazzi di Let’s Dig Again: C.A.S.T. Convegno di Archeologia, Storia e giochi da Tavolo. Realizzato con il contributo di Ri-Volt/McWatt e patrocinato da Longobardi in ItaliaConfederazione Italiana Archeologi, Associazione Italiana di Public History e Federludo, il convegno si è svolto il 1 e 2 marzo a Firenze, negli spazi del Caffè Letterario Le Murate e di Murate Idea Park.

La prima giornata si è concentrata sui contributi di relatori che hanno portato la propria esperienza di “gamification“, un termine inglese che si riferisce in senso lato a programmazione di attività di gioco applicate ad ambiti che normalmente non lo prevedono. Nei vari ambiti in cui è possibile sviluppare attività di gioco c’è anche quello educativo, in cui il gioco può avere intenti didattici. Per questo motivo, il concetto di gamification sta divantando popolare e diffuso nei luoghi di divulgazione culturale, soprattutto di cultura antica.

La seconda giornata ha poi aggiunto la materia prima del convegno, ovvero i giochi e i loro giocatori! Una sala è stata interamente allestita con tavoli su cui hanno trovato posto tabelle e pedine, carte e regolamenti, scatole multicolori e perfino un intero e complesso diorama. Dalla mattina alla sera appassionati vecchi e nuovi hanno stretto alleanze oppure scoperto insanabili divergenze con alter ego provenienti da tutta Italia, mentre in una sala del Caffè Letterario continuavano gli interventi e venivano affrontati i temi più caldi del gioco di ruolo ambientato nell’antichità.

Quali fonti usare?

Per avere un’idea dei diversi aspetti affrontati negli interventi in sala vi mando direttamente alla pagina web che Let’s Dig Again ha dedicato a C.A.S.T. e agli account Facebook e Instagram che hanno raccolto le immagini salienti della due giorni.

Io invece voglio soffermarmi su alcuni argomenti che mi hanno incuriosito, per esempio la bella discussione sull’uso delle fonti antiche per ideare e organizzare un gioco, soprattutto un gioco di ruolo. I protagonisti della tavola rotonda erano persone impegnate da anni nella divulgazione storico-archeologico tramite giochi rievocati oppure creati ad hoc: Jacopo “Faust” Buttiglieri (Langobardia Horribilis), Laura Cardinale (Il Salotto di Giano APS, Jano Studio S.r.l., Federludo), Iacopo Trotta (Associazione AFBIS, Federludo), Mirella Vicini (Vicepresidente Federludo), Sara De Sanctis (D.R.A.G.O. APS, Federludo) e Marco Moderato (Accademia dei Pugni).

In maniera credo prevedibile la risposta alla domanda iniziale è stata unanime: le fonti vanno usate tutte! Ma i singoli relatori, ognuno impegnato in un ambito particolare della divulgazione storica, hanno sottolineato un aspetto che forse spesso sfugge: il gioco storico o archeologico che voglia riuscire nell’intento di immedesimarsi nell’epoca giocata, non dovrebbe avere lo scopo di ricreare un evento storico, ma di dare corpo al cosiddetto “non detto”.

Perché il bello non è riuscire a rivivere momento per momento un evento, anche famoso, per il quale abbiamo fonti scritte che di per sé sono fonti parziali e da maneggiare con cautela. Se vogliamo davvero trasmettere l’emozione della storia antica e magari aiutare a comprendere meglio gli usi e costumi antichi, è molto più utile (e più onesto) elaborare uno scenario inventato, ma plausibile e mettere il giocatore nella condizione di sviluppare la propria sensibilità all’argomento.

È un mondo difficile

La tavola rotonda successiva ha ribadito e ampliato i discorsi dei precedenti relatori: “Gioco e società: storia, archeologia e giochi a servizio di un progresso sostenibile e inclusivo“ con Giovanni Bacaro (Presidente Federludo), Laura Cardinale, Sara De Sanctis e Diego Morgera (Accademia dei Pugni). Io non ho potuto fare a meno di ricordare una collega che storceva il naso quando le raccontavo di creare in classe quiz a tema e brevi giochi di deduzione in cui gli studenti vestivano di volta in volta i panni di Teseo, Ulisse, Enea, oppure di aruspici etruschi. La collega mi diceva che non dovremmo “farli divertire”, ma istruirli e io pensavo che per me è impagabile l’emozione di ascoltare il ragionamento di uno studente o di una studentessa che cerca di prendere in considerazione i pro e i contro di una decisione che salverà la vita all’eroe oppure di capire come orientare il templum. Un altro aspetto che secondo me non viene mai considerato abbastanza è che il gioco in classe aiuta a creare un’atmosfera di collaborazione che nessun tema o quiz o ricerca di gruppo riuscirà mai a ottenere. In un’atmosfera di gioco anche la competitività riesce a trovare un proprio canale di sfogo e non si ferma alle aride questioni di voti e gratificazioni accademiche.

Giocano, sai? Giocano tutti! (quasi cit.)

Mattia Mancini (a sinistra) e Gabriele Zorzi

Mattia Mancini, Egittologo impegnato nella ricerca e nella divulgazione anche online con il suo celebre blog djedmedu, e Gabriele Zorzi, istrionico animatore delle tante attività di La Fara Longobarda, hanno infine contribuito alla discussione in maniera a un tempo rigorosa e divertente: il loro intervento ha riguardato alcuni giochi che venivano praticati, rispettivamente, nell’antico Egitto e nel mondo longobardo. Questo per ribadire il fatto che la dimensione del gioco appartiene all’animo umano ed è quindi parte integrante di quelle civiltà che vogliamo così ostinatamente studiare e divulgare!

Io, Ilderico

Immagine tratta dal sito:
https://travelnostop.com/lombardia/curiosita/alla-scoperta-dei-longobardi-con-il-gioco-di-ruolo-prima-che-il-gallo-canti_586211

E infine veniamo alla mia esperienza al C.A.S.T.! Sabato pomeriggio ho vissuto la mia prima avventura in un gioco à la Dungeons&Dragons ambientato nell’Italia longobarda!!

Il gioco si chiama “Prima che il Gallo Canti” ed è un’avventura basata sulla quinta edizione di D&D. Giada Taribelli ed Emilio Palmerini sono gli ideatori e gli sceneggiatori sia dell’avventura intera che del fumetto che ne definisce l’antefatto. Un fumetto disegnato e curato da Francesco Mazziotta. A Firenze il progetto è stato presentato da Arianna Petricone, che nell’ Associazione Italia Langobardorum è impegnata nella Segreteria Tecnico-Scientifica e nel coordinamento del sito seriale; accanto a lei Carlo Piloni (Project Manager Gummy Ind.) e Giovanni Manzoli (Business Unit Manager Gummy Ind.) hanno spiegato chiaramente che un prodotto di questo tipo, per essere efficace, deve essere coordinato e gestito non solo dagli esperti di storia longobarda, ma anche da esperti di game design e di fumetti. Perché, ancora una volta, ciò che viene prodotto non è una rievocazione storica ma un sistema per sperimentare la storia in modo immersivo e avvolgente.

Il fumetto e gli aspetti tecnici che in queste situazioni sono riservati al Master di un gioco di ruolo sono scaricabili nella sezione Download del sito di Longobardi in Italia, dove, tra l’altro, è possibile raccogliere molto materiale e informazioni sul sito seriale dei Longobardi, che coordina diverse aree archeologiche sparse per l’Italia.

Io, come dicevo, ho voluto provare l’ebbrezza di essere Ilderico, un bardo istruito presso Benevento, dall’aria pacioccona ma pronto a darsi da fare per aiutare il prossimo anche in situazioni complicate! Accanto a me Adelmo, Folco, Orso e Sigmar hanno vissuto un’avventura a tratti buffa ma molto avvincente. Nel nostro gruppo c’erano sia giocatori esperti sia chi, come me, per la prima volta si affacciava al mondo del gioco di ruolo. I nostri Master sono stati proprio i due autori dell’avventura, che ci hanno guidato con ironia e competenza.

CAST A…gain!

Spero che gli amici di Let’s Dig Again annuncino presto la seconda edizione di questa bella avventura. Perché il convegno ha il pregio di condividere idee ed esperienze e perché il mondo della divulgazione storico-archeologica in Italia ha bisogno di diffondere sempre di più le idee che le realtà anglosassone o francese, per esempio, stanno sviluppando già da tempo.

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La storia siamo (ancora) noi.

Ormai per me non esiste più ottobre senza il viaggio a Licodia Eubea, splendido paesino a un’ora da Catania, astro che brilla in una costellazione di borghi dal passato presente e vibrante (solo per citarne un paio: Vizzini e Grammichele, per i quali rimando a una serie di articoli che scrissi nella “discesa” del 2017).

La kermesse di Lorenzo Daniele, Alessandra Cilio e Mauro Italia ha cambiato veste (non più Rassegna ma Festival) ma non sostanza e anche quest’anno è un’occasione stimolante, che porta incontri, scambi e progetti, ma soprattutto belle emozioni e momenti di simpatica euforia.

Ogni anno mi riprometto di scrivere lunghi articoli, di sviluppare i collegamenti che mi sono venuti in mente guardando i film, ma è davvero dura fermarsi e riordinare le idee durante i giorni del Festival, e l’andare via equivale per me a essere risucchiata nel vortice degli impegni, quelli da cui per qualche giorno mi ero riuscita ad allontanare. Eppure, forse questa volta riesco a elaborare un breve post su un aspetto che mi sta affascinando particolarmente.

Tema

Il bello di iniziative di questo tipo è la varietà di offerta di film che viene proposta: i titoli in lista possono soddisfare gusti anche molto diversi e l’unico tema che hanno in comune è il rapporto con il passato, solitamente un passato archeologico. Ma la direzione artistica qui a Licodia cerca di costruire la scaletta delle proposte seguendo un filo conduttore, così che gli argomenti si svolgono dinanzi allo spettatore secondo una logica e formando un quadro coerente.

I film di quest’anno a Licodia Eubea presentano spesso la relazione tra l’attività scientifica degli archeologi e la popolazione che risiede nel territorio interessato dalla ricerca.

Svolgimento

Negli ultimi anni si è fatta più pressante la necessità, da parte degli addetti ai lavori, di coinvolgere la popolazione nelle ricerche, evocando una “archeologia pubblica” che viene spesso declinata in modi estremamente diversi, ma che in fin dei conti chiede semplicemente che si metta più attenzione nel rapporto tra chi cerca la storia e le persone che quella ricerca dovrebbero usufruire.

Ebbene, nei film in concorso ho trovato spesso l’intenzione da parte del regista di ascoltare le voci dei non addetti ai lavori o di interrogarsi sulla trasformazione del luogo nei volti e nelle abitudini dei suoi abitanti.

Il documentario “Gli abitanti di Gobeklitepe” di Sedat Benek, per esempio, prende uno dei siti archeologici più importanti e più discussi, la cui datazione porta a rivedere la seriazione cronologica addirittura del Neolitico, e lo dà in pasto agli abitanti della zona. In un continuo andirivieni tra sito e paese annesso, il regista ci spiega, attraverso le voci delle persone del luogo, che Gobeklitepe è sempre stato considerato sacro, fino a inventarsi una formula di giuramento su quelle rovine (lo giuro su Gobekli Tepe).

Uno degli intervistati spiega che sua nonna organizzava ogni anno un vero e proprio rituale di purificazione e propiziatorio di un buon raccolto: tra il 20 e il 22 marzo tutta la famiglia raggiungeva la zona, che ancora non era stata indagata, e la nonna benediva le pecore. Tutto, in questo rituale, rimanda a gesti antichissimi, alla magia dell’equinozio primaverile, al ruolo fondante del sistema famigliare, alla vita dei campi, che dal passaggio neolitico arriva dritta fino a noi. In fondo, una volta scoperto il valore storico di Gobeklitepe, gli studiosi lo hanno interpretato come luogo di riunione annuale di una certa comunità.

Sedat Benek ha però cercato anche di portare a galla il malcontento della gestione amministrativa degli scavi da parte del governo centrale: gli intervistati garantiscono di essere talmente orgogliosi del loro passato, da non fidarsi a lasciarlo in mani straniere (il direttore degli scavi è stato il tedesco Schmidt per almeno 20 anni). Così, quando lo Stato interviene per espropriare, i proprietari dei terreni cercano quanto meno una buona fuoriuscita, ma vengono sistematicamente delusi.

Infine, la frase forse più significativa di questa burrascosa relazione tra abitanti e archeologia, la pronuncia un signore che ricorda la scoperta di una statua itifallica durante i lavori di aratura di un campo: cercando di capire come gestirla e dove portarla, lui e il padre ricevono il suggerimento di un amico: “è inutile. Portatelo in un museo e forse là potrà servire a qualcosa”. Evito di aggiungere commenti a una frase che spiega da sola tutto un mondo.

I volti

Immagine tratta dall’articolo di Classicult

Due film, invece, mi hanno colpito perché hanno coinvolto gli abitanti di due siti ben distinti. Il primo film Krošnja, ha per titolo il termine tecnico botanico in lingua serba che indica la parte di un albero che emerge dal terreno. In questo caso, a emergere nei boschi della zona tra i fiumi Ibar e Drina, sono stele funerarie i cui volti sembrano parenti di Giustiniano e della sua corte: visi triangolari, occhi sgranati, labbra sottili e rigide. Ognuno di loro è rappresentato con un oggetto caratterizzante (l’uomo con l’ombrello chiuso sembra la risposta serba al sogno magrittiano) e le lapidi spiegano la vita e la morte di queste persone. La scelta di ritrarli direttamente nel bosco e non in un museo è proprio la chiave di lettura che mi ha permesso di riconoscere direttamente le persone, senza filtri.

Infine Zakros, un lungo documentario sugli scavi cretesi diretti da Nikolaos Platon, che combina insieme filmati degli anni ’80 con scene moderne e che a un certo punto (il filo delle concatenazioni è un poco difficile da seguire e presenta, secondo me, diversi nodi che interrompono la narrazione) fa riferimento alla presenza di Lidio Cipriani e alle sue foto. Il maggiore Cipriani, nel 1942, approdò a Creta e riprese i lavori che da anni portava avanti sullo studio delle razze (il fantomatico Manifesto della Razza fu elaborato anche partendo dalle sue teorie): le foto di Cipriani ritraggono volti per poterli mettere in relazione a teorie su evoluzioni e affinità e infatti confluirono in un volume, pubblicato a Firenze nel 1943, dal titolo “Creta e l’origine mediterranea della civiltà”.

Ma riproponendo le foto di Cipriani, il regista cerca un possibile collegamento con gli abitanti moderni di Creta, in uno sforzo titanico di cambiare le premesse del lavoro del fascista Cirpiani e di sfruttare quello studio per poter ritrovare una continuità tra i residenti del passato e del presente.

La terra del ritorno

I carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale sono tra i protagonisti del film

Infine c’è “Askòs. Il canto della sirena“, il film che ha vinto il premio AudioVisiva, della giuria di qualità, e sul quale scriverò un’analisi condita di opinioni molto personali. Ebbene, il vaso del titolo, l’askòs, arriva sullo schermo solo dopo almeno 20 minuti: il vero fulcro della storia sono gli uomini che, a vario titolo, hanno avuto a che fare con esso e soprattutto l’intera popolazione, il territorio della gente. Una gente che ha visto la propria terra “bucherellata” che si è illusa di poter ricavare soldi da ciò che veniva alla luce, che si è sentita defraudata quando è emersa la questione del furto del vaso e che oggi lotta per ritrovare una identità, proprio attraverso gli antichi reperti.

Conclusione (?)

L’archeologia che abbiamo visto sullo schermo di questa XIII edizione, spesso e volentieri, è stata quella, se non pubblica, del pubblico: se oggi si parla tanto di divulgazione della cultura, è perché il divario tra scavo/studio e la popolazione che vive a contatto con ciò che deve essere scavato/studiato è davvero un ostacolo al progresso della scienza. E perché oggi più di prima riconosciamo all’archeologia il ruolo di sanare il divario, le ferite del tempo.

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