Appunti di viaggio 2: “giusto un velo”

I Plateesi hanno anche un santuario dedicato ad Atena Areia; costruito con la loro parte del bottino di Maratona (…) la statua di culto è di legno e rivestita d’oro, tranne il volto, le mani e i piedi che sono in marmo pentelico. E’ leggermente più piccola della statua di bronzo che, sull’Acropoli, è stata eretta in onore di Atena, con il bottino della stessa Maratona (…) Pausania, Periegesi della Grecia, IX, 4, 1.

Questa libera traduzione del passo di Pausania è un piccolo assaggio di ciò che spesso si legge nelle peregrinazioni del famoso greco: una serie di confronti e rimandi tra un santuario e un altro, una statua e un’altra, una città e un’altra. Pausania tiene tutto legato da un filo, a volte sottile, che esprime la sua voglia di capire e registrare, cercando il senso profondo o superficiale, sotteso a tutti i manufatti umani.

Ecco, io mi trovavo a Roma, in San Pietro per la precisione, intenta a godermi il quotidiano spettacolo dell’iconolatria mordi-e-fuggi che unisce il gesto apotropaico al voyerismo più a buon mercato: per ogni toccatina di piede bronzeo del Santo, ecco che scatta il flash del parente fotografo.

Gironzolavo, in attesa di ricongiungermi con i 19 adolescenti nordamericani, persi tra i marmi colorati o accasciati tra le pieghe barocche della basilica (fino a quando non intervengono gli Angeli del Bello, versione romana), quando l’occhio mi è caduto su di una statua che già mi aveva colpito in aprile.

All’epoca ero riuscita a fotografarla solo da lontano, perché non ci si poteva avvicinare alla zona del transetto, causa la massa di gente pellegrina giunta a visitare San Pietro durante la Settimana Santa; mi aveva colpito quel movimento così concitato, quasi disperato. La bocca aperta, come a urlare uno spavento o una sorpresa… librandosi al di sopra della marea umana di turisti distratti, aveva l’effetto di richiamarli al rispetto per il luogo o, almeno, ad una sosta momentanea…A pensarci bene, poteva anche sembrare un talentuoso saltimbanco che ringraziava dopo un’esibizione riuscita…

Non avevo neppure capito che si trattava di una figura femminile! Ma questa volta, passando sotto a distanza ravvicinata, mi sono fermata e l’ho guardata con attenzione:

Santa Veronica Hyerosolimitana. Una piccola rivelazione, confermata dalla sagoma disegnata sul drappo. Il motivo per cui mi sono incuriosita di fronte alla statua di Francesco Mochi è stata un’altra Veronica, vista a Barcellona poche settimane prima.

La Santa Veronica della facciata della Passione alla Sagrada Familia.

Queste due Veroniche mi hanno spinto a cercare l’origine dell’iconografia più chiara ma allo stesso tempo anche più complessa della tradizione cattolica cristiana.

Come spesso accade, l’episodio della Veronica è una “conquista” medievale: nei Vangeli non vi è traccia della reliquia “acheiropoieta” (non fatta da mano umana), cioè del ritratto non dipinto ma “impresso”, l’unico tassello del mosaico dottrinale è la presenza di una ragazzina miracolata da Gesù Cristo. Ma il miracolo è di quelli cari alla letteratura brauronia, quella delle ragazzine che guadagnano lo status di fanciulla da marito attraverso 3 anni di iniziazioni sacre: la Berenike del Vangelo è una dodicenne con emorragia galoppante, fermata dal solo contatto con la tunica del Cristo. Da Berenike a Veronica il passo linguistico è breve e da Veronica a vera icona il fraintendimento paretimologico è ancora più a portata di amanuense. Eccoci dunque alla Veronica e alla immagine/icona di Cristo, impressa su di una tela di lino che la fanciulla voleva consacrare alla memoria del Salvatore oppure su di un panno con il quale Veronica asciuga il sudore del condannato in croce.

La passione per le reliquie contagia naturalmente anche San Pietro, perciò non dovrebbe sorprendere sapere che la basilica conserva [sorvolerò la questione del furto e la ricomparsa della reliquia a Manoppello] una delle 8 vere icone oggi attestate nel mondo cattolico; esposto nella quinta domenica di ogni Quaresima, l’autoritratto su tela più dibattuto della storia è stato immortalato nel marmo da Francesco Mochi nel 1640, con un’opera che ha fatto alzare più di un sopracciglio, a causa del movimento “sfacciato”, poco consono a un simbolo di santità. Eppure il Mochi ci teneva a quella veste svolazzante, a quel gesto di corsa verso il miracolo, come a voler urlare a tutto il mondo l’impronta della propria fede.

L’arte barocca deve quindi molto alla scelta di rappresentare questa Veronica in corsa, isolata in una nicchia, ma con una gamba già giù dal piedistallo. Forse “fede che si diffonde tra la gente”? oppure una più semplice fedeltà filologica al racconto più diffuso nel Medioevo? Quale che sia stata la vera ispirazione, archiviamo pure la statua secentesca di San Pietro tra quella iconologia che vede Veronica quasi isolata rispetto alle altre figure evangeliche, stretta a quel drappo per lei così prezioso da donarle nuovamente la vista.

Tornando a Gaudì, cosa mi ha colpito allora così tanto nella Sagrada Familia?

L’episodio medievale della Veronica entra a tutti gli effetti nella sacra rappresentazione della Pasqua cristiana attraverso i quadri della Via Crucis. Segnatamente in Spagna, probabilmente nel XVII secolo, si contano i primi esempi della Veronica ai piedi della croce, sul Golgota. In effetti, il volto di Cristo sarebbe stato asciugato con il panno di lino “impressionato” (manco a dirlo, Veronica è anche la patrona dei fotografi…). Allora, perché stupirsi di vederla alla base di quel triangolo frontonale, sulla facciata c.d. della Passione di Gaudì?

La Sagrada Familia è l’opera ultima e suprema di un genio. Un uomo non più in grado di sostenere la propria genialità e quindi convinto di essere in “obbligo” rispetto all’opinione pubblica: Gaudì, negli ultimi anni della sua vita, forse spaventato dalle sue stesse creazioni al limite dell’onirico, forse impressionato da quel mondo interiore che gli suggeriva quei sogni, si avvicina a una setta religiosa e si lascia convincere a “espiare” la propria genialità.

Questo è, a detta dei biografi, il motivo che lo spinge a concepire il Temple expiatori de la Sagrada Familia, i cui lavori cominciano nel 1882. Semplice è individuare la speranza del Salvatore nella decorazione floreale e nei lineamenti morbidi delle statue della Facciata della Natività, così come sembrerebbe logico l’arido e asciutto modellato dei personaggi nella Facciata più dolorosa, quella della Passione.

Ma Gaudì non arriva a vedere completata la sua espiazione: muore a causa di un incidente nel 1926 e lascia alcuni appunti e disegni, la maggior parte dei quali andrà bruciata durante la Guerra Civile, nonché il grande dilemma che ancora oggi lascia perplessi gli abitanti di Barcellona: finirla o non finirla? e come?

La facciata della Passione è così commissionata a Josep Subirachs, un artista vagamente visionario, il quale riporta proprio la Via Crucis: gli episodi della salita al Golgotha riprodotti con fedeltà quasi filologica, lasciandosi andare a qualche coup de théâtre come il supposto ritratto dello stesso Gaudì o il soldato-omaggio alla Petrera.

Di chi è il disegno cui si ispira Subirachs? forse di Gaudì? non è chiaro cosa abbia effettivamente mantenuto e quanto abbia innovato, ma a noi interessa la “vera icona”

Nella versione di Subirachs, la Veronica è presente perché parte integrante delle stazioni della Via Crucis, tuttavia non le è concesso un ritratto vero e proprio, il suo volto è un ovale inespressivo, perché – in fondo – si tratta di una leggenda, di un “mezzo” attraverso il quale il mondo viene messo in contatto con l’unica reale immagine, l’unica vera icona: ecco quindi che il volto sul lino è l’unico volto di prospetto dell’intera facciata. Il crocifisso ha il mento abbassato, le ombre dei lineamenti aguzzi nascondono occhi e bocca, i comprimari sono quasi immagini delle formelle generalmente dedicate alla Via Crucis, perciò sono di profilo, rivolti ora a destra ora a sinistra. L’unico sguardo che il penitente incrocia, inoltrandosi nel bosco di pietra della Sagrada Familia, è quello sul velo di Veronica, presentato al mondo perché è quella l’unica faccia che la nostra fede può riconoscere come quella del Cristo.

Il vero volto di Cristo non è quello che lo ha caratterizzato nella sua vita sulla Terra, ma è quello che noi ci ricostruiamo, dipinto su un telo di lino o inciso nella pietra e nel marmo.

Il “volto di prospetto”… un altro topos per gli amanti della storia dell’arte antica… che potrebbe portarci fino a….…ma questa è un’altra storia…



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