Giornalisti precari, annoiati da notizie che non sanno più raccogliere e affaticati dalle ansie di un lavoro sempre più mortificato, ci stanno abituando a leggere quotidianamente avvenimenti che, un tempo, avremmo considerato distrattamente tra un bigodino e una mèche…
Così può capitare di far vagare l’occhio e la mente da un attentato terroristico in un deserto lontano, teatro di guerra ufficiale (e non stupirci della bizzarra scelta di termini non congruenti) ad un caso di serpi nel WC… da un incidente diplomatico internazionale ad un settantenne che si rende ridicolo di fronte al Presidente USA .. (ah, no.. questa era la stessa notizia).. allora, dall’ennesima statistica che vede l’Italia scivolare rovinosamente lungo tutti i principali indici di “vivibilità” e “civiltà” ..all’aggiornamento “sconvolgente” in un caso di cronaca nera.
Ecco, la cronaca nera. Un colore, un giudizio, una sensazione. Nera come la veste di una donna sfatta, buona per l’ennesimo quiz “Indovina quanti anni ha” e, dopo quasi un anno, accusata di connivenza con la figlia nell’assassinio della nipote; anzi, no, accusata di essere effettivamente lei la causa che ha scatenato la rabbia della figlia nei confronti della cugina.
In fondo, cosa serviva ai Greci per imbastire una buona tragedia? Una famiglia.
E cosa serve a noi, cittadini sconsiderati eredi, per riempire qualche foglio bianco e qualche occhio asciutto? Ancora e sempre una famiglia.
La differenza profonda tra noi e i Greci (oddio.. frase infelice e ricca di aspettative disattese) consiste nel non saper individuare o nel non voler più ricercare i solchi del disagio e del dolore, che preparano il terreno familiare ad accogliere i semi di rabbia, gioia, malinconia, passione, infelicità, autonomia, immaturità, equilibrio ecc.ecc.
Mentre leggo inorridita (eppure ho scelto io di soffermarmi su queste righe) il resoconto precisamente morboso dell’aspirante scrittore travestito da freddo cronista, mi rendo conto che madre, figlia, padre, nipote, comprimari, ecc., sono trattati alla stregua di fragili figurine di carta, da ritagliare e sistemare nel nostro album come ci pare: “E’ stata sicuramente lei” “L’ha aiutata lui” “Ah, ma non era da sola” “Sì, ma con una madre così…”
Poi la mente vaga verso gli amati classici e le espressioni o le immagini entrate ormai nel parlare comune: il complesso di Edipo, Medea assassina dei figli, i gioielli di Cornelia ecc.ecc. Vicende familiari, esempi di amore materno che inesorabilmente diventa “troppo”, come se l’amore fosse assimilabile ad una pietanza, da consumare con moderazione “No, grazie, sono sazia, basta così” . E, immancabile, il commento: “Come sono moderni questi Greci!”, che rende evidente il grande equivoco: non è questione di modernità, piuttosto di situazioni ed emozioni che accomunano l’essere umano e che un tempo era possibile ammirare in tutta la loro tragica e splendida essenza, con molte meno sovrastrutture, che oggi soffocano e intorpidiscono i nostri sensi di spettatori (e, probabili, futuri attori).
Per questo, un libro come “Oh, mamma!” si legge in fretta. Sono racconti eterogenei, alcuni parlano di avvenimenti lontani nel tempo e ne acquistano una patina color seppia, di foto scontornate e pose ricercate, altri invece offrono un trucco improvviso, una chiave di lettura improvvisa. Ma si legge in fretta.
La curiosità ti spinge ad arrivare velocemente alla conclusione, il presentimento non basta, vuoi essere sicura che la storia ti porterà proprio lì… ma c’è un altro motivo, uno più intimo, più personale, che ti chiede – per pietà – di sfogliare il racconto e archiviarlo… si tratta della tua esperienza personale, che, quale che sia, viene inevitabilmente, inesorabilmente, catturata dalla trama. Imbrigliata nel rapporto madre-figlia che le autrici sanno rendere maledettamente bene! Nessuna sfugge: la figlia amorevole, quella rabbiosa, la madre egoista, quella assente, quella innocente, la figlia sfacciata. Non sono semplici racconti di belle e brave donne che allevano bimbe educate e serene; sono storie di un’attualità disarmante, che, in poche parole e a volte concentrandosi su episodi che sembrano estranei al nucleo del racconto, giungono dritte al cuore del rapporto materno.
Ogni autrice ha un proprio stile, che è gradevole ritrovare nell’alternarsi dei brani. Così il libro sembra un enorme maelstrom di sensazioni, un gorgo che inghiotte e poi però risputa.. più libere, forse, più consapevoli, sicuramente.
Elena Trabaudi si affida alle biografie di donne di famiglia, ma vissute un secolo fa, e il suo sguardo lo avvertiamo di grande comprensione, nel senso più vero di abbracciare ogni forza o debolezza, ogni risata e ogni lacrima, cercando il più possibile di collocarla nello spazio e soprattutto nel tempo e leggerne, così, il giusto colore.
Carla Muschio sceglie il tocco più leggero e consolatorio di una fragilità forse semplice, ma mai superficiale. Le sue sembrano donne addolorate eppure sempre sorridenti, come di saggia bambina che cresce già consapevole di un doveroso pianto, da sopportare per poter godere anche degli intensi momenti di gioia.
Francesca Taddei è la più giovane? Forse che sì, forse che no. La sua personalissima avventura sembra abbracciarne molte altre e probabilmente nel suo sguardo fermo e onesto ci tuffiamo per sapere e per capire, ansiose di leggere “il seguito” e affezionate già alla sua fragilità di acciaio.
Laura Minetto è l’atteso pugno nello stomaco. I suoi racconti cominciano sussurrando frasi semplici e accattivanti, così seguiamo il filo e, schiave della genetica, non possiamo fare altro che avvolgerlo in un gomitolo che diventa sempre più grosso. Alla fine del gomitolo ci guardiamo intorno accorgendoci di essere entrate nel più classico dei labirinti… e allora, forti dei nostri studi classici, sappiamo già cosa ci attende: il mostro, del nostro inconscio.
Aristotele chiedeva di piangere di fronte alle rappresentazioni teatrali meglio riuscite.. no, forse non così esplicitamente, in ogni caso sperava che la trama potesse toccare corde profonde in chi vi assisteva. I racconti delle quattro signore non ci chiedono partecipazione, la conquistano con il linguaggio semplice e scorrevole, ma soprattutto con la capacità di rendere concreti i tanti aspetti di un rapporto complesso: quello della donna con il proprio corpo, della donna con i propri sentimenti, della donna che diventa madre pur continuando ad essere figlia.. e della figlia che non ha più voglia di domandarsi come si fa ad essere madre. In questa contorta catena o gioco di specchi, la figura maschile compare raramente, ma quando lo fa riesce sempre a lasciare il segno, indelebile, che ferisce o che completa, che riempie oppure svuota.
Come dicevano gli antichi: cosa serve per fare una buona tragedia? Una famiglia.
E noi aggiungiamo: e per fare un buon libro? Una figlia.
Le foto di dame ottocentesche sono tratte da “Mamme. Uno sguardo sul passato” di Francesca Taddei.
Grazie, a nome di tutte e 4 le autrici!