Un’Hora sola ti vorrei

E intanto le Cariti ricciute e le Hore piene di allegria, e Armonia e Ebe e Afrodite, figlia di Zeus, danzano insieme tenendosi per mano

Inno omerico ad Apollo, vv 194-196
Un rilievo esposto al Louvre e usato per illustrare un’interessante conferenza: https://www.bates.edu/classical-medieval/2016/04/06/engendering-time-in-the-ancient-mediterranean-april-29-may-1-2016/

Nella notte dell’ora legale scrivo un’ode che indaga la figura sfuggente dell’Hora classica. E scopro che questo nostro modo di chiamarla “legale” in effetti riecheggia l’origine alta ed esiodea del mito:

Per seconda poi sposò la splendida Temi, che fu madre delle Hore, Eunomia, Dike e Eirene fiorente, che vegliano sull’opera degli uomini mortali

Esiodo, Teogonia, vv 901-903
Una kylix da Vulci, del 550-500 a.C. e firmata da Sosias. Qui le Horai sono schierate insieme agli altri dèi nell’accogliere Herakles sull’Olimpo
https://www.beazley.ox.ac.uk/XDB/ASP/recordDetails.asp?recordCount=1&start=0

Il poeta delle origini del mondo e del suo ordine, spiega che le Ore sono figlie di Zeus e Temis e sorelle delle Moire, le signore del destino. Dunque dal padre degli dei e dalla personificazione della Giustizia divina derivano le tre dee che sovrintendono al tempo vissuto dagli uomini nel quotidiano e le tre che sovrintendono al tempo della vita umana. Esiodo dà addirittura un nome a queste Ore: il Buon Governo, la Giustizia e la Pace. Lasciandoci immaginare che da Zeus arrivi, come una benedizione, il tempo degli uomini, intriso di equilibrio e armonia, devoto esclusivamente al buon corso degli eventi: per questo le fanciulle si uniscono alla danza immortale del dio dell’equilibrio, Apollo.

Ma tale lettura squisitamente allegorica di Esiodo è già un passo successivo all’origine delle Horai:

Mi donasti tredici peri, dieci meli e quaranta fichi; promettesti di darmi così cinquanta filari, e maturava ciascuno dopo l’altro i suoi grappoli – vi sono uve di ogni genere ovunque – quando le stagioni di Zeus dall’alto li caricano

Odissea, XXIV, vv 340-344

Le “stagioni di Zeus” non sono altro che le Horai (῟Ωραι) e infatti se il padre è il dio del cielo e della pioggia, le figlie, partorite insieme alla saggia dea che amministra la giustizia in cielo e in terra, sono gli effetti dell’opera del padre sulle messi e sull’ambiente.

Pausania, nel libro IX al capitolo 35, ci racconta che ad Atene si onoravano due Horai: Thallò, la stagione della primavera, e Carpò, la stagione dell’autunno. Ognuna con il suo carico di simboli, dai fiori sbocciati ai frutti dei raccolti, ognuna da santificare perché foriera di benessere, ognuna da difendere, come imparavano gli efebi in giuramento.

Le Horai belle

Fin da subito i mitografi più antichi associano Horai e Charites: di queste ultime si sa che sono molto belle e aggraziate e che assistono Afrodite. Allora la dea che nascendo porta la primavera sembra destinata alla bellezza e al controllo del tempo atmosferico, il suo arrivo – infatti – è associato a un clima mite, denso di aromi, colorato dai mille boccioli in fiore. Per i pittori o gli scultori più superficiali, dunque, le ragazze del corteggio di Afrodite si assomigliano tutte e non possono fare altro che sorridere, essere vestite di veli trasparenti e tenersi per mano in una danza eterea.

La danza delle Horai

Edward Poynter, “Horae Serenae”, 1896

Il primo a voler moltiplicare queste giovani donne, nate già sagge e cariche di impegni, fu Igino, il quale nelle sue Fabulae diede il nome a dieci di esse. Dopo di lui anche Quinto Smirneo e Nonno di Panopoli si divertono a immaginarle associate alle porzioni del giorno, sempre danzanti perché sempre fuggevoli. Si perde a poco a poco quella idea così nobile che le aveva designate guardiane dei cancelli dell’Olimpo e del tempo degli uomini che, nell’intenzione della saggia Temis, doveva essere impiegato per agire secondo la Legge del creato.

Nel 1874 Amilcare Ponchielli dà un pentagramma a quello che per secoli era stato il ritornello degli artisti più metafisici: “La Danza delle Ore” diventa un intermezzo ballato ne “La Gioconda” e lo interpretano 12 ballerine, raggruppate in ore dell’aurora, del giorno, della sera e della notte, organizzate da due ballerini, le lancette.

In questa notte, dunque, fermatevi un attimo e sospendete il tempo. Prendete per mano le Ore e unitevi a loro in una danza fatta di istanti.

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Diario da Licodia – quale memoria?

Caro diario,

i giorni a Licodia Eubea sono scanditi dalla parola “sessione“: pomeridiana, serale, mattinata, visite guidate. Ogni momento del giorno è confezionato ad hoc e ospiti e visitatori sciamano tra piazzetta Stefania Noce, dove si apre la ex chiesa di San Benedetto e Santa Chiara – sede della Rassegna – e il Bar Sport, dove le colazioni diventano incontri internazionali, oppure la Badia, per pranzi e aperitivi, o ancora la piazzetta del Municipio, da cui partono le visite guidate.

La memoria di Jay

Io mi sto immergendo nelle proiezioni in sala, sotto il tetto settecentesco della chiesa, circondata dalle foto di Giovanni Jay Cavallaro che mi guardano e sembrano chiedermi: “Guardaci! Voltati! Sai chi siamo? Sai dove siamo? Ti interessa il nostro paese? Hai voglia di chiederci come viviamo, cosa facciamo? CA SEMU!

Ogni immagine in questa chiesa chiede di essere ascoltata per diventare protagonista della nostra vita. Ma di chi è la memoria che leggiamo negli occhi in bianco e nero? Non è la memoria di Jay, bensì quella della madre, anzi no, piuttosto della nonna. Eppure la ricerca delle sue radici ha attraversato le vite semplici di uomini e donne di Piedimonte Etneo e così una foto scattata a un bambino, mentre impara dal nonno – sullo sfondo – a tirare il fercolo della Madonna, diventa la memoria di quella famiglia, dove il nonno non è più e il bambino si sta facendo uomo.

La memoria di Yvette

Uno dei film in concorso illustra lo scavo fatto in un rifugio della Seconda Guerra Mondiale sotto Caen. La narrazione passa però dalla casa di Yvette Lethimonnier, una dolce signora che nel 1944 aveva 12 anni e che rievoca i momenti pieni di tensione, quando cercava di sfuggire allo sguardo attento dei genitori o quando il padre utilizzava la tromba di un grammofono per annunciare il pasto pronto per il gruppo di rifugiati. Il lavoro degli archeologi è di recuperare la storia del rifugio, per fornire una testimonianza dettagliata dell’impatto che la guerra ha avuto su Caen. Ma il filmato si concentra su Yvette, la quale viene fatta scendere 20 metri sotto terra per guardare il lavoro degli archeologi e rievocare i propri ricordi.

Questo è il momento in cui negli occhi di Yvette compaiono le lacrime, mentre si prepara a scendere. Eppure è lei a volerlo: “Forse così troverò un po’ di pace nei miei ricordi”.

Questo è il momento in cui nei miei occhi compaiono le lacrime, nel vedere la fragilità di Yvette dinanzi alla propria memoria, che diventa memoria di tutti e poi torna a essere solo sua, e di suo padre.

Maneggiare la memoria

Il nostro lavoro, mio caro diario, accende passioni ed entusiasmi e viene spesso associato a personaggi in viaggio, attrezzati per entrare nella terra (o nell’acqua) e sporcarsi dalla testa ai piedi, per poi lasciare muretti ordinati, tombe attrezzate, musei. Ma chi si interessa all’archeologia vuole capire, chiede ricostruzione storica, cerca certezze.

Negli ultimi anni, tuttavia, sta diventando importante, tra gli addetti ai lavori, riflettere su come gestire i resti umani che si trovano spesso negli scavi; l’archeologia non indaga esclusivamente civiltà lontanissime, perché anche un cimitero sette-ottocentesco deve essere documentato con la stessa attenzione di una necropoli minoica. Se nel filmato “The Trace of Time” Yannis Sakellarakis ricordava il pope che benediva le tombe di Fournì, qui in Rassegna abbiamo visto in “Nos vestiges” i dilemmi di Emma Bouvard-Mor, archeo-antropologa del Servizio Archeologico di Lione. Di chi sono quelle ossa? Della scienza o dei discendenti? Hanno più dignità ossa di Minoici oppure di cittadini di 10 generazioni fa?

Un ruolo

Questa Rassegna mi ha permesso di comprendere ancora meglio il ruolo degli storici e degli archeologi: è necessario dare a questa nostra società una prospettiva, un modo per riconciliarci con il passato, anche il più recente. Vorrei davvero che facessimo tutti come Yvette e guardassimo il lavoro degli archeologi sulla storia collettiva come un modo per affrontare e risolvere le nostre memorie personali.

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Diario da Licodia – 16 ottobre

Caro diario,

ieri sera ho finalmente potuto vedere il filmato diretto da Francesco Bocchieri che illustra l’esperienza dei camminatori dell’Antica Trasversale Sicula. Il titolo completo è “Antica Trasversale Sicula. Il cammino della Dea Madre” e la ‘voce fuori campo’ che commenta l’impresa dei camminatori è femminile, proprio quella Dea Madre che li segue e incita e aiuta, a suo modo, sostenendo i loro passi o criticando le loro manchevolezze.

Ma io non ci credo.

Vedi, la natura del pellegrino, da tempo immemore, è quella che spinge a mettersi per strada verso una meta precisa: per noi è ormai abituale pensare che la meta sia la tomba di un famoso santo, oppure un importante santuario; ci piace ricordare le origini medievali dei percorsi più celebri, quando erano forse proprio i pericoli a rendere più eroici i pellegrinaggi (e i pellegrini), quando, arrivati a destinazione, era fondamentale ricevere un oggetto che testimoniasse il successo dell’impresa. Quando il termine “pellegrinaggio” viene usato in maniera decisamente laica ci sembra quasi ironico e chiaramente connotante.

Nelle prime tappe della Trasversale i camminatori giungono a Gibellina e percorrono i cretti di Burri.

L’Antica Trasversale Sicula è, innanzitutto, una strada, individuata da Biagio Pace e attestata negli scritti di Idrisi: si tratta di un percorso nato per collegare centri diversi e quindi legato alla necessità, solitamente di tipo economico. Non ci sono santi alle origini di questo percorso. Ma nelle parole dei partecipanti, sapientemente registrate nel filmato, emerge spesso il termine “fede”: una fiducia riposta nell’essere umano.

Ecco perché secondo me questo percorso è un pellegrinaggio diverso da tutti gli altri. La Dea Madre è la Terra: una divinità che riceve la veste soprannaturale dagli uomini e dalle donne che la abitano e la percorrono. Negli occhi dei camminatori ho ritrovato l’origine del divino, nella sua purezza e nelle loro parole la necessità atavica di riporre la propria fede in qualcosa che li comprenda e li abbracci, senza limitarli a vuoti rituali.

Il percorso dell’Antica Trasversale Sicula è, secondo me, il modo migliore per cercare di ricucire gli strappi, come Alessandra Cilio ha detto in apertura della Rassegna.

I camminatori non sono solo italiani, ma vengono da tutto il mondo e viaggiano in tenda, godendo spesso dell’ospitalità delle comunità locali.

Tornare a fidarci gli uni degli altri, rispettandoci e condividendo quello che abbiamo di più prezioso: la nostra terra.

Come tutti i filmati della Rassegna del documentario e della comunicazione archeologica di Licodia Eubea, anche questo sulla Trasversale Sicula resterà visibile su streamcult per l’intera prossima settimana.

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Diario da Licodia – 15 ottobre

Caro diario,

l’aria è gelida qui a Licodia Eubea e questo ottobre non sembra proprio quello a cui mi aveva abituata la Rassegna del documentario e della comunicazione Archeologica! Ma il sole è caldo e anche quest’anno sono stata accolta dagli abbracci (mascherati e vaccinati) di quella che posso ormai chiamare la mia famiglia siciliana.

Ieri sera è stata inaugurata la Rassegna, giunta all’undicesima edizione, con un film che segna la filosofia di questo anno, così complesso e allo stesso tempo pieno di promesse: dopo la versione online del 2020, quest’anno siamo tornati “in presenza” e i cocci da raccogliere e ricomporre sono tanti. Così, come ha sottolineato Alessandra (Cilio, direttrice artistica della Rassegna insieme a Lorenzo Daniele), la selezione dei film e dei documentari è stata ispirata dalla ricerca di storie che parlassero di ricucire strappi, di far parlare insieme esigenze diverse, apparentemente inconciliabili.

Il primo film “Sulle tracce del patrimonio archeologico. Le ragioni dell’archeologia” è un sapiente collage di immagini di repertorio, interviste in bianco e nero e interventi contemporanei dei protagonisti di una saga archeologica estremamente importante per il Mezzogiorno d’Italia: l’esplorazione della piana di Sibari negli anni ’60.

Partendo dalla figura di Dinu Adamesteanu, il film approfondisce la questione dello scontro tra la popolazione della piana, che sperava di uscire dalla condizione di mezzadria e sfruttamento, le proposte di chi voleva portare gli impianti industriali che avrebbero sfruttato i giacimenti di gas e petrolio, le ambizioni politiche di chi non voleva cambiamenti nello status quo del Mezzogiorno e infine le esigenze degli archeologi, che volevano riportare alla luce la storia di quei luoghi e renderne orgogliosi gli abitanti.

Dinu Adamesteanu è il primo Soprintendente della Basilicata, il “creatore” di questa regione nella letteratura archeologica. Colui il quale cerca il dialogo con gli abitanti, nel tentativo estremo di far prevalere la logica della storia da preservare. Adamesteanu è anche il primo a sviluppare l’uso archeologico della fotografia aerea. La sua figura, la sua voce, i suoi incontri con la popolazione, diventano un esempio virtuoso di quella archeologia che all’epoca non si chiamava pubblica, ma che mai come allora poteva avere la funzione di creare una coscienza sociale, oltre che di classe.

Alla fine la Cassa del Mezzogiorno finanziò gli scavi, ma solo per qualche anno: il tempo necessario per interrompere i sogni dell’industrializzazione e scavare un solco profondo tra gli archeologi e i cittadini. Gli scavi saranno ripresi più tardi, Sibari oggi è al centro di un Parco Archeologico, ma l’attuale direttore di parco e museo è consapevole del grande lavoro che ancora è da fare per colmare quel solco.

Il filmato di Farioli Vecchioli propone altre importanti riflessioni sull’incontro tra tecnologia e storia antica, oppure tra gli interessi dei tanti soggetti coinvolti in uno scavo. “Le ragioni dell’archeologia”, che sarà visibile su Rai Storia, aiuta a mettere a fuoco le sfide che ogni scavo archeologico propone agli specialisti e alla comunità.

Tra poco comincia la sessione pomeridiana del secondo giorno, visibile su www.streamcult.it e il programma è ancora ricco di storie che parlano di solchi riempiti, strappi ricuciti, della Storia che incontra le storie di ciascuno.

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